Il regista e documentarista haitiano premio Oscar ha portato il suo ultimo lavoro George Orwell 2+2=5 al festival di Cannes nella sezione Première: verrà distribuito in Italia da I Wonder Pictures. «il cinema è stato un viaggio complesso e talvolta frustrante. I pregiudizi sono duri a morire. Il punto di vista della stampa è sempre occidentale»
«La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L’ignoranza è forza». I tre mantra del partito totalitario immaginato negli anni Quaranta da George Orwell nel suo romanzo 1984 fanno da cornice inquietante al nuovo film documentario del regista candidato al premio Oscar Raoul Peck. Il nostro mondo si sta veramente avvicinando alla distopia immaginata dal visionario romanziere britannico?
Mettendo in parallelo la biografia dello scrittore con il nostro presente, attraverso un lavoro impressionante di montaggio e di materiale di archivio, l’autore haitiano si impegna a decostruire la narrazione storica comune e a decifrare l’attualità con una precisione chirurgica.
Il futuro inventato da Orwell, illustrato da immagini di Trump e dell’assalto in Campidoglio, di soldati israeliani che bruciano una biblioteca a Gaza o di Putin che giustifica l’invasione dell’Ucraina in nome della denazificazione, sono agghiaccianti e ci fanno riflettere su un mondo sempre più inquinato dal totalitarismo, dalle fake news, dalla censura, dalla distrazione di massa e la manipolazione verbale e mediatica.
Contestabile per alcuni ma decisamente lucido e coraggioso George Orwell 2+2=5 ha scosso il festival di Cannes dove è stato presentato nella sezione Première e verrà distribuito in Italia dall’impavida I Wonder Pictures.
Carl Marx, James Baldwin, Ernest Cole e adesso anche George Orwell. Sente di avere qualcosa in comune con i grandi outsider che ha voluto raccontare nei suoi film?
Sono da sempre affascinato dalla realtà di individui che sono in conflitto con la società in cui vivono. Le vite dei miei protagonisti, da James Baldwin a Ernest Cole si intersecano spesso con la mia stessa esperienza, con i muri contro cui mi sono scontrato.
La gente vede prima di tutto il colore della mia pelle, non vedono un regista con una visione, non sanno che ho vissuto negli Stati Uniti, in Germania e in Francia, Paesi che conosco meglio della media dei loro abitanti, ma il loro primo riflesso è sempre stato quello di dirmi quello che potevo fare o no. Il mio percorso mi ha portato ad aprire delle porte, a portare avanti una forma di guerriglia attraverso i miei film, perché per fare cinema servono soldi, non bastano un quaderno e una matita, quindi per me si è sempre trattato di colpire duro e scomparire.
È così che ho costruito la mia carriera, oggi ho una filmografia solida alle spalle ma il cinema è stato un viaggio complesso e talvolta frustrante. I pregiudizi sono duri a morire ed è solo negli ultimi dieci anni che si è verificata una vera apertura, in cui le registe donne hanno iniziato a vedere riconosciute le loro opere, lo stesso è accaduto alle persone di colore.
Quando ha capito che il cinema poteva essere un’arma per lei?
Ho avuto la fortuna di avvicinarmi al cinema a un’età in cui avevo già una formazione politica. Quando sono andato a studiare a 17 anni all’università di Berlino, negli anni Settanta, era l’epoca d’oro della solidarietà internazionale, tutti i movimenti di protesta e di liberazione si incrociavano lì: i comunisti iraniani che si opponevano al regime dello Scià (e che furono decimati al loro ritorno in Iran dopo la Rivoluzione islamica), i sudafricani dell’African National Congress (ANC), lo Swapo della Namibia, i sandinisti del Nicaragua, i cileni sopravvissuti al sanguinoso putsch di Pinochet.
Mi sono formato all’interno di questa militanza. Aavevo in mente una sola cosa: terminare gli studi e tornare a combattere contro la dittatura di Jean-Claude Duvalier ad Haiti. Molti compatrioti sono stati uccisi quando sono tornati a casa e quando ho deciso di iscrivermi all’accademia del cinema l’ho fatto perché ho capito che il cinema era uno strumento di combattimento.
Ma presto ho capito il limite dei film militanti, è inutile girarli per un pubblico già convinto dalle tue stesse idee, quello che mi interessa è toccare le persone comuni. Qualunque film io faccia, deve rimanere accessibile a tutti.
Che rapporto ha con il cinema di finzione?
Nei miei documentari metto molta narrazione e in quelli di finzione solo realtà. Non ho mai inventato nulla, mai fantasticato, non sarei in grado. Mi capita di vederne ma non mi emozionano, la realtà invece mi commuove, mi ispirano l’assurdità e l’ironia della vita, mi stupiscono le coincidenze, i percorsi di vita degli altri.
La nostra storia mi affascina e mi piace decostruirla per dare un equilibrio a narrazioni secolari scritte sempre e solo dai vincitori, che si tratti di colonialismo europeo, schiavismo negli Usa o capitalismo occidentale. Mi interessa capovolgere il punto di vista storico, indagare sull’assurdità degli eventi costringendo le persone a vedere che il mondo è multiplo.
L’idea che il mondo sia “multiplo” sembra non piacere a molti viste le guerre sanguinose in atto.
Da sempre le guerre nascono perché un gruppo ritiene inferiore un altro, lo strumento migliore per continuare a uccidere è la disumanizzazione del “nemico”.
Lo fanno gli esponenti di Hamas con il brutale attacco del 7 ottobre come lo fa Israele che continua a massacrare i palestinesi perché civili, donne, bambini o neonati sono la stessa cosa di Hamas. L’assurda classificazione delle persone per razze, religione o orientamento sessuale ci ucciderà tutti.
Dovremmo aver imparato qualcosa dalla Shoah, ho vissuto a Berlino, proprio lì, dove è tutto successo, e non mi sono mai scordato per un solo giorno del posto in cui mi trovavo. Una lezione di vita e vedere la situazione mondiale di oggi è allarmante perché è ancora una volta frutto del senso di superiorità morale dell’Occidente. Come possiamo continuare a ignorare le conseguenze dei crimini di guerra impuniti? Primo Levi si starà rivoltando nella tomba.
Orwell 2+2=5 parla anche di un controllo dell’informazione sempre più inquietante, stiamo tornando, attraverso i media, alla propaganda al servizio del potere?
Ho assistito negli anni alla decostruzione della stampa che è oggi in mano a pochi potenti e questo ha per forza delle conseguenze.
Quando girai nel ‘91 un film su Patrice Lumumba (leader dell’indipendenza del Congo assassinato nel ‘61), intervistai un grande capo redattore delle news della TV nazionale belga, e parlando di obiettività nel giornalismo mi disse già all’epoca: «Sì, la stampa è libera, ma i giornalisti no». Conosco molti bravissimi giornalisti di grandi testate come Le Monde o il New York Times che negli anni hanno deciso di mollare le loro carriere perché erano stufi di scrivere sempre gli stessi articoli. Il punto di vista è sempre occidentale.
Se parlavano di Haiti affrontavano solo due temi: la violenza delle gang, che piacciono molto perché sono esotiche, e i bambini adottati. Mai un pezzo sulla lotta della società civile che combatte da anni contro la crisi umanitaria e politica. E questo semplicemente perché Haiti è uno stato indipendente non gradito dall’Occidente.
Hanno sostenuto il governo Henry perché secondo loro ci bastava una democrazia corrotta low cost, e ora è un vero disastro. Oggi possiamo veramente parlare di democrazia? Trump negli Stati Uniti ne è la negazione, il suo modus operandi assomiglia sempre di più all’autocrazia di Putin. Democrazia in origine significa dare potere a un popolo di cittadini istruiti che votano, discutono e partecipano alla vita politica, visto il crescente astensionismo non mi sembra che il mondo stia andando da questa parte.
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