Cannes 2025, mentre i film in competizione bruciano l’uno dietro l’altro, spicca una sorpresa di inizio festival che continua ad abitare l’inconscio della critica internazionale, e si scommette già su un suo posto nel palmarès. Il film è il tedesco Sound of Falling (il rumore della caduta) della sconosciuta Mascha Schilinski che al suo secondo film approda direttamente in concorso.

Un’opera misteriosa e formalmente affascinante che parte dal 1910 e attraversa un secolo intrecciando i destini di diverse ragazze in una fattoria dell’Altmark, una regione rurale della Germania settentrionale che divenne parte della Ddr dopo la Seconda guerra mondiale. Niente di romantico, anzi: il film è un intricato patchwork di punti di vista, ricordi, suoni e sensazioni attraverso il tempo che ci immerge in un passato doloroso, persino macabro che delinea un destino femminile dimenticato dalla storia. Mentre le guerre vengono solamente evocate dal suono, vita, morte, malattia, sesso, violenza, durezza dei rapporti sociali si intersecano in questo feroce ritratto familiare tedesco che va a scavare tra i fantasmi del passato per raccontare la condizione delle donne.

Un progetto durato cinque anni, un film più che ambizioso che attraversa il XX secolo mappando l’intimità di quattro donne in epoche diverse, come diavolo le è venuto in mente?

Tutto è nato un’estate di cinque anni fa, in una fattoria nel nord della Sassonia, vicino al fiume Elba. Ero insieme alla mia co-sceneggiatrice Louise Peter e ci siamo imbattute in questo luogo dove il tempo sembrava essersi fermato. La casa era vuota da 50 anni e, per caso, abbiamo trovato un’istantanea del 1920 in cui tre donne, in modo insolito per l’epoca, guardavano dritte verso la macchina fotografica. Sembravano guardarci e così ci siamo chieste: «Cosa è successo qui?», «Quali erano le loro storie?».

Questo stesso luogo poteva custodire memorie molto banali, ma anche momenti tragici, importanti, esistenziali. Questo mi ha fatto riflettere sulla nozione del tempo e sui parallelismi delle nostre esistenze. Che cosa rimane di tutti i momenti di vita? È possibile creare una memoria corporea collettiva? Da queste domande è nata l’idea di girare un film sulla sincronicità del tempo in cui le vite di quattro ragazze nel corso di un secolo iniziano a rispecchiarsi l’una nell’altra.

Più che vivere, le sue ragazze sembrano sopravvivere a un secolo di asservimento e di oppressioni familiari, il suo film racconta anche la trasmissione generazionale di un trauma?

Abbiamo svolto numerose ricerche su come il trauma venga generalmente trasmesso di generazione in generazione. Ma più che alla narrazione psicologica eravamo interessati ai suoi aspetti fenomenologici: ai segni onirici o impercettibili del corpo che svelano quanto gli echi del passato possano tramandarsi e insinuarsi sotto la pelle condizionando la nostra vita. Le mie protagoniste vivono in epoche diverse, ma quello che mi affascinava era cosa rimaneva di loro attraverso il tempo, in un luogo apparentemente idilliaco che facesse da memoria storica al XX secolo.

Facendo ricerche abbiamo scoperto che la vita di queste donne era spesso considerata insignificante, e dietro alla facciata paradisiaca della regione dell’Altmark erano segretamente in balia di un ambiente brutale, dove venivano punite per un nulla o educate a non recare fastidio o danno agli uomini. La violenza contro le donne è un fenomeno che persiste in varie forme, a volte è molto discreto, ma è qualcosa che ci portiamo dentro da secoli.

C’è qualcosa di personale in questa storia?

Assolutamente, il film riflette attraverso le mie protagoniste molti pensieri e sensazioni che ho avuto durante l’infanzia. Soprattutto il disperato desiderio inconscio di voler essere unica, di non avere un passato, nessuno che mi abbia preceduto in un’altra vita. La voglia di sentirmi veramente me stessa, senza l’influenza di nessuno né il peso di un vissuto. Essere qui e ora senza conseguenze e vedere solo quello che è tangibile come questo tavolo.

Più che un film di dialoghi e sceneggiatura Sound of Falling è un magnifico puzzle emozionale di immagini, suggestioni sonore e montaggio. Quali sono stati i suoi riferimenti cinematografici e visivi?

Sono da sempre influenzata da Ingmar Bergman, non per i riferimenti visivi ma più per le sensazioni che trasmettono le sue opere. E poi Kieslowski che ha avuto una grande influenza su questo film. Ma è stato il lavoro della fotografa Francesca Woodman ad ispirarci veramente. C’è qualcosa di spettrale ma anche di estremamente lucido nel modo in cui ritrae delle scene quasi oniriche. E il film lavora sulla memoria collettiva ancestrale e sulla percezione che abbiamo del passato, per questo ci siamo anche ispirati a materiali d’archivio dell’epoca della Ddr e a fotografie di famiglia trovate nella regione dell’Altmark. La domanda che ci facevamo insieme al mio direttore della fotografia era: come può apparire un ricordo anche se è perduto, represso o rimosso ? La sfida era quella di dargli corpo attraverso delle immagini avvolgenti in movimento.

Nel film c’è una chiara ossessione per i corpi che mostra amputati, desiderati. Esporre la fisicità è un modo per ricordare che i suoi personaggi, che hanno anche attraversato la guerra, non sono solo ombre del passato?

Sì, non lo so nemmeno io. Credo di aver voluto raccontare la memoria trasmessa dal fisico, la rimozione del corpo, il fatto che qualcosa sia stato amputato in loro, un dolore che non riescono più a spiegare a se stessi perché non hanno più accesso l’uno all’altro.

Più che evocare la storia della Germania, mi interessavano le cicatrici della guerra che sono universali, il film poteva svolgersi in qualsiasi altra parte del mondo, e credo che far vedere la quotidianità di queste donne sia il modo migliore di raccontare il peso della storia.

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