Prima i figli ci uscivano dal corpo, così senza pensarci, ora siamo diventate come Giove, che ha fatto nascere Minerva dalla testa. Il “sì” e il “no” restano ovviamente una scelta del tutto personale, in barba a cosa dice l’Istat.

Del resto avere un figlio non è una manciata di anni in cui un piccolo essere con pigiamini vezzosi richiederà tutta la nostra attenzione, tantomeno è lo stregonesco processo della gravidanza con le sue fantasie di maternità; “avere un figlio” è innanzitutto un’espressione mendace; porta a pensare a una qualche forma di possesso e di controllo, ma generare vita include fidarsi dell’imprevedibile.

Come madre di adolescente negli ultimi due anni sono passata da “avere” una Betty Boop ad “avere” un Marc Bolan dei T. Rex – diciamo una persona che per look si colloca tra David Bowie e Lou Reed, senza essere riconosciuto per strada. Mentre Marc va fiero di pettinature improbabili con colori come il verde o il bluette e strategiche rasature ai lati, Betty Boop era teneramente schiva con riccioli neri e mollettine: tecnicamente sarebbero sempre la stessa persona, ma non lo sono, visto che da Betty Boop a Marc Bolan, oltre lo stile dei capelli, sono cambiati anche l’identità di genere e il nome. “Avere un figlio” è decisamente un’espressione che porta fuori strada su cosa sia “vedere crescere qualcuno” e assistere alla metamorfosi ha costretto i miei codici artritici, e ogni mio limite, a fare stretching, a diventare adattivi per accogliere.

In ogni caso la scelta “figlio o non figlio?” è fatta da un cervello che non sarà più il nostro una volta che la risposta sia stata “sì”. Come le neuroscienze hanno da decenni dimostrato, la materia grigia si modifica fisicamente con la gravidanza e quel “sì” e quel “no” al figlio è una scelta sempre irrazionale dato che, qualunque criterio usato, sarà concepito da un’identità che non esisterà più con la nuova nascita. Anziché “voglio avere un figlio?”, occorrerebbe domandarsi: “Voglio partorire un genitore?”, e se una persona si risponde “No, grazie mille” ne ha tutto il diritto – anche perché come specie umana abbiamo ottenuto una recensione a cinque stelle in tema di riproduzione.

Prima di rispondere al quesito, però, è importante sapere che per partorire un genitore non basta generare un figlio. Nossignori. Come insegna un grande classico della letteratura sul tema, Nascita di una madre di Daniel e Nadia Stern, o come Sophie Marinopoulos illustra egregiamente nel suo Nell’intimo delle madri. Luci e ombre della maternità, nel peggiore dei casi un genitore non vede la luce nemmeno anni dopo il parto. Senza menzionare i casi estremi di cronaca nera, partorire una madre resta una strada in salita anche nelle vite comuni, dato che una nuova nascita estrae di prepotenza la nostra infanzia dal forziere del corpo, e il dolore psichico, se c’è stato, si propaga come un’infezione.

Se con il tempo le piaghe purulente possono farsi rosee cicatrici, per partorire un genitore non basta nemmeno questa azione di infermieristica su sé stessi, ma occorre riallineare la prospettiva della nostra importanza nel mondo, fare la tara alla propria ambizione e questa diminutio di sé stessi è spesso dolorosa, almeno prima che un noi venga partorito da quell’io che siamo sempre stati. Per quel che riguarda la mia esperienza, per dirla con Freud, ho fatto un figlio «nel punto più vulnerabile del sistema narcisistico – l’immortalità dell’io – quando la realtà ne metteva radicalmente in forse la sopravvivenza». Insomma, l’ho fatto tardi, se non all’ultimo uovo, comunque in zona Cesarini.

Quel desiderio di maternità, inatteso e mai sentito prima, è stato un diabolico architettare della natura, che sa agganciarti a lei proprio quando ti stai abituando allo spettacolo. Mi si era affievolito lo stupore, volevo rilanciare la meraviglia (lo volevo per me stessa, non certo per la società). Non sono stata una soldatessa del desiderio, nessun intervento medicalizzato pur di riuscirci, il corpo ha risposto, oplà, ecco il figlio.

Mi domando cosa avrei fatto se il mio volere non fosse stato esaudito, visto che alcune di noi spingono i loro corpi verso il limite, al galoppo sotto le frustate della scienza e, prova e riprova, diventano madri alle soglie della vecchiaia – tanto possiamo contare, Istat dixit, su un declino sempre più lento e siamo molto ottimiste nel mettere al mondo qualcuno che dipenderà da noi.

Io ho ceduto il mio Dna, ormai quindici anni or sono, convinta di riprodurre me stessa e consegnando al mondo un nuovo sguardo, talmente diverso da me che nemmeno lo capisco. Ovviamente prima di diventare genitore avevo idee chiarissime su come farlo, invece su quanto contraddittorio si sia rivelato il mio debutto da madre ci ho dovuto pure scrivere sopra un libro, tentando di fare luce nel buio di sentimenti lontanissimi da quelli immaginati prima che il figlio apparisse tra le mie mani.

A sottolineare che ciascuna ha il suo percorso e che non ci sono ricette, né medaglie al valore, ma solo svolte personalissime, devo aggiungere che mi sono ritrovata in una posizione interessante perché, oltre al neonato, amavo altri due bambini piccoli che non avevano altra figura materna oltre me: infatti verso i quaranta il desiderio di bambini era tale che mi sono innamorata di un uomo con due piccoli orfani di madre e posso dire che, senza la responsabilità della nascita, pensieri più lineari accompagnano l’accudimento, perché crescere una vita che ci sarebbe comunque, anche senza di noi, aiuta a percepire il bambino come una storia che non coincide con la nostra.

In ogni caso l’infanzia dei tre pareva fatta di giorni senza fine, ma in un battito di ciglia siamo ormai passati da “abbracciami” a “scòllate”, detto alla romana. Visto dai miei occhi di oggi, aiutare a crescere questi tre esseri diversissimi è stato come il lancio di un boomerang che ti fa sbilanciare in avanti nello sforzo del volo. Se sei fortunato, proprio come un boomerang, qualcosa torna indietro.

Questo testo è tratto da I figli che non voglio, a cura di Simonetta Sciandivasci, Mondadori, 2022.

© Riproduzione riservata