Chi era Josè Martì? E Camilo Cienfuegos? E Celia Sanchez? Sembra impossibile, ma c’è stato un tempo, in Italia, in cui uno scampolo di generazione, tenacemente addestrata da famiglie di ferrea tenuta ideologica, imparava a memoria gli eroi e le canzoni dei barbudos cubani con la stessa diligente applicazione riservata ad altri canzonieri rivoluzionari assortiti.

Quasi sempre sotto l’etichetta “rossa” de I dischi del sole si masticava con indecorose pronunce la lingua dei messicani di Pancho Villa e delle Brigate internazionali della guerra civile spagnola. Molto prima che Sergio Endrigo musicasse i versi di José Martì, c’era uno strano pianeta di rampolli della sinistra che aveva più dimestichezza col nome di questo leader cubano dell’Ottocento di quanta ne avesse con l’inquilino in carica del Quirinale. Nessuno leggeva Granma, l’organo ufficiale del partito comunista di Cuba, ma era – fideisticamente – il giornale di riferimento. La caserma Moncada era una faccenda di casa. È stata una strana infanzia, al limite del demenziale, per chi l’ha vissuta.

Bolla esistenziale

Era come vivere in una bolla – culturale, esistenziale, ideologica – irripetibile nei decenni a venire. Irripetibile perché comportava divieti che nessun ragazzino sensato si sognerebbe più di accettare: il rock, Elvis, perfino i jeans, qualsiasi prodotto culturale del nemico a stelle e strisce era farina del diavolo.

C’era però un orizzonte nostrano cui attingere, se proprio le dita friggevano per i primi accordi di chitarra e il primo Bob Dylan plagiato da Joan Baez risultava ostico. Le famiglie comuniste blindate favorivano il consumo del cantautorato di Cantacronache e naturalmente le filiazioni, nazionali e locali, del Canzoniere italiano, con Giovanna Marini, Giovanna Daffini – coi suoi canti delle mondine – Ivan Della Mea, Gualtiero Bertelli… l’elenco è lunghissimo e di tutto rispetto.

Questa bolla, rigorosamente di minoranza ma non poi così circoscritta, è stata sepolta dalla Storia. Con gli occhi di oggi, è come se non fosse mai esistita. Ne ha rintracciato il sapore parecchi anni fa Susanna Nicchiarelli col suo primo film, Cosmonauta, ambientato in una sezione del defunto Pci,  che infatti nel 2009 sembrava alquanto marziano.

Per l’Italia si sono aggirati, sotto sembianze normali, strani individui che avendo scoperto l’America con riprovevole ritardo sui tempi dei loro coetanei erano pronti a fare carte false per scambiare Marx e Lenin con Roosevelt. Roosevelt, naturalmente, perché era fuori questione arrendersi hands down al facile culto dei Kennedy.

Fuori tempo massimo

Ho ripensato a questo segmento sepolto di memoria patria guardando un piccolo film di esordio, Querido Fidel, di una giovane regista napoletana, Viviana Calò, che almeno di certo non copia nessuno. È una produzione indipendente e sofferta, messa insieme anche attraverso il crowdfunding, e racconta l’indefettibile fede di un marziano “da bolla” capace di resistere agli scossoni della realtà fuori tempo massimo.

Uno stalinista nostalgico risulterebbe francamente antipatico, ottuso e indigeribile. Infatti il compagno Emidio Tagliavini (Gianfelice Imparato), napoletano verace figlio di un militante castrista, ha invece come unico nume Fidel. Fidel e il suo socialismo caraibico, visti e vissuti dai vicoli, col pretesto di una stravagante corrispondenza privata col lìder maximo, intrattenuta durante i decenni. Il film esce il 18 novembre, a ridosso di quel 25 novembre che si è portato via Castro, cinque anni fa, e Maradona, nel 2020: singolare cortocircuito.

Non riesco a ricordare il momento esatto in cui, nel secolo scorso, la parola “ideali” è stata retrocessa a “ideologie”. È stato con la caduta del Muro di Berlino? E sono da compatire o da invidiare quelli che non si sono arresi alla retrocessione? Figure patetiche, matti, secondo il sentire comune, ma forti abbastanza da coltivare una illusione che può diventare ragione stessa di vita.

Fuoricorso e fuori genere, il film di Viviana Calò guarda il mondo attraverso il paludato armamentario lessicale di Emidio, che boccia il Disgelo come «tentativo di seminare il decadente morbo capitalista nella Casa Madre Russa», e non capirà mai che il mondo intorno a lui, intorno a Cuba, alla memoria del Che come alla Napoli di Maradona e del consumismo, sta irrevocabilmente cambiando.

«Ce l’hai un sogno?», chiede Emidio a suo figlio che, comprensibilmente, pensa solo al calcio, alle donne e alle moto. La cosa vera è che lui un sogno ce l’ha, e i sogni nutrono, quando non li releghi nel paradiso perduto delle utopie. Ce l’abbiamo un sogno noialtri, che per fortuna non ci travestiamo – come lui – da barbudo rivoluzionario (con tanto di sigaro d’ordinanza) per fare le pulci al panettiere che ha alzato i prezzi senza motivo?

Uno così, che ogni tanto pianifica attentati burloni a base di gas esilarante, che svuota i serbatoi dei vicini per mandare benzina a Cuba sotto embargo, è chiaramente fuori di testa. Tant’è che è obbligato a sedute periodiche con lo strizzacervelli. Ma un’esistenza parallela, contro la Storia e contro la logica – scombinata quanto si vuole – è possibile, e non per forza dannosa per i familiari stretti che la subiscono. La bambina di casa, plasmata con le buffe devozioni inflitte a tanta prole di antimperialisti intransigenti in tempi di Guerra fredda, diventerà portatrice sana di Hasta la Victoria Siempre. Fa tenerezza, questo trionfo dell’asincronia controcorrente, col suo codazzo di canzoni da accendini gauchisti, a partire dall’imprescindibile Comandante Che Guevara.

Città per sognatori

L’epistolario ventisettennale tra Fidel e il suo ostinato seguace partenopeo è totalmente inverosimile, e in questo consiste la sorpresa finale del film. Ma c’è un rodimento segreto, c’è una ragione di pancia che spiega i premi – miglior attore e migliore regia – ottenuti da Querido Fidel (incipit familiare delle lettere a Castro) al Bif&st, il Festival barese di Felice Laudadio. È un atto di resistenza surreale, grottesco, comico anche, che sorprendentemente intercetta momenti di Italia vissuta, e certo non solo di Italia.

A Napoli, più che in qualunque altro posto del mondo, questa resistenza surreale è possibile. «È una città atipica che, nonostante anch’essa sia soggetta alle sue regole, vive ai margini della società contemporanea, custodendo all’ombra dei suoi vicoli una sorta di bolla di autonomia e di creatività che lascia tempo e spazio per le differenze, le stranezze e le storture», dice la regista (e sceneggiatrice, e produttrice anche). «È una città per i sognatori».

Sono frammenti periferici di memoria, sacche disperse nelle fosse comuni del tempo e delle idee, quelli che vengono a galla. Inutili, forse. O forse no?

© Riproduzione riservata