Quando ho ricevuto la prima mail con il lancio di Cose da maschi, ho pensato all’istante di voler contribuire. Non solo perché, da laureanda a Princeton, ho studiato proprio questioni di genere nell’ambito dell’Italianistica con Alessandro Giammei, ma anche perché alcuni pensieri sullo spettro di cui tratta la newsletter occupano la mia mente ogni giorno, da sempre.

Altrettanto istantaneamente, tuttavia, mi sono sentita insicura: che potrei dire, io che mi identifico come donna, di queste sfuggenti cose da maschi? Ho diritto di parlarne?

Quali cose da maschi?

Biograficamente, sono sempre appartenuta a contesti personali e sociali al di fuori della cis-etero-normatività maschile: sono stata letteralmente cresciuta, e intellettualmente nutrita, da donne e omosessuali; in alcune occasioni sono anche stata coinvolta sentimentalmente in relazioni codificate come queer e ho sempre studiato, in diverse lingue e media, opere e problemi situati in uno spazio liminale, che comprende anche trasgressioni di genere e sessualità. Non ero dunque certa di essere abbastanza esperta o informata per parlare di maschilità tout court.

Basandomi però su ciò che amo e forse conosco di più, il cinema, e disponendo delle impressioni fresche generate da una visione di Titane di Julia Ducournau, che ha da poco vinto la Palma d’Oro a Cannes, ho pensato di scrivere su quel film.

Nella familiarità c’è una sicurezza, ho ragionato, che forse potrebbe proteggermi contro l’ignoto delle cose da maschi che continuano a trovarmi perplessa, proprio come quando ero una ragazzina. Inoltre, il giorno prima di mettermi a scrivere, ho letto un pezzo del caro professor Giammei sull’estetica segreta del fascismo di periferia che mi ha rivelato un filo teso tra i miei pensieri più recenti. Mi è sembrato dunque di poter scrivere qualcosa sul maschile come performance e corazza: prestazione e protezione.

Come un’armatura

Nel suo pezzo, Giammei ha scritto dell’improvvisa consapevolezza viscerale di essere un maschio, e di tutto ciò che ha comportato nel contesto specifico della sua scuola media: gli abiti, il comportamento (dal modo di camminare ai gesti), la parlata. Si tratta di aspettative su come stare al mondo che si possono adottare o meno, a seconda del desiderio di essere dentro o ai margini (se non fuori da) un gruppo socialmente definito come maschile.

Alcuni mesi fa, quando mi sono trasferita a Cambridge, nel Massachusetts, per i miei studi di dottorato, ho avuto una lunga conversazione con un uomo sui trent’anni. Aveva un dottorato in scienze ad Harvard, una relazione eterosessuale a lungo termine con una donna di altrettanto successo, e un atteggiamento acuto verso lo smantellamento delle norme oppressive della maschilità tossica, conseguito attraverso la terapia (con una terapista donna), l’autoriflessione, e attraverso conversazioni come quella che stavamo avendo noi due quel giorno.

Incontrare un uomo del genere, anche in un paese dove forse ci sono più opportunità per maturare tali consapevolezze, è raro, almeno per quel che è capitato a me tra Europa e Stati Uniti. Presto, tuttavia, mi sono resa conto della complessità della sua esperienza. «Non è stato fino all’ultimo anno di università», mi ha detto, «che ho imparato come essere un uomo».

Essendo stato, come me, cresciuto da donne, e soprattutto avendo avuto intorno sempre amicizie e modelli femminili o queer, mi ha detto che non ha mai avuto un punto di riferimento: nessuno che gli insegnasse come essere maschio. Fino alla fine dell’università, appunto, quando è diventato finalmente compagno di stanza di alcuni ragazzi etero, veri bros, che gli hanno impartito le conoscenze di cui aveva tanto bisogno.

A quel punto ha smesso di dire certe cose, o di dire cose in un certo modo, adottando piccoli gesti e comportamenti che convalidavano la sua maschilità. Mi ha fornito esempi, per lo più riguardanti la sostituzione della morbidezza con la rigidità, con un certo stoicismo, e, sebbene provassi un po’ di delusione per la sua consapevole rinuncia alla devianza in favore della normatività, contemporaneamente non potevo fare a meno di riconoscere un arco analogo nella mia stessa vita.

Anche io, sebbene donna, parlo talvolta con una voce più profonda, o indosso abiti meno femminili, per essere presa più sul serio in certi ambienti professionali e accademici, o per sentirmi più al sicuro in certi contesti sociali. «È semplicemente più facile», mi confessava il collega. Mentirei se dicessi di non essere d’accordo.

Trasmutazioni horror

Una trasmutazione analoga a quella del mio collega – però visibile attraverso un cambiamento corporale, visto che si tratta sostanzialmente di un body horror – accade nel film di Ducournau (spoiler in arrivo).

La protagonista, Alexia, fuggendo dai crimini che ha commesso a causa di un incidente automobilistico che le ha cambiato la vita fin dall’infanzia, assume l’identità di un uomo scomparso da bambino, Adrien, figlio del pompiere Vincent. Prima di presentarsi come Adrien, Alexia baratta le sue trecce bionde per un taglio corto e sbiadito, si rade le sopracciglia, si fascia il petto, si rompe violentemente il naso contro un lavandino del bagno – la violenza di quest’ultimo atto le dà fisicamente un aspetto rude e maschile, ma allude anche all’imprescindibilità della violenza nella mitologia della maschilità stessa.

Il padre surrogato Vincent accoglie subito Alexia/Adrien nella squadra di pompieri che supervisiona. Gli altri uomini della squadra, ragazzini quasi comicamente muscolosi e ipermaschili, cominciano subito a far battute omofobe su Adrien. Vincent lo protegge, ma non senza dimostrare la sua versione del cameratismo uomo-uomo (un legame paternale classicamente maschile) a casa, dove intavola con Adrien un gioco irrequieto, che passa dalla danza alla lotta, e viceversa.

La volatilità del rapporto è aggravata peraltro dal silenzio monastico di Adrien e dal disagio che Vincent ha con sé stesso, riflesso nel suo abuso di steroidi per combattere la degenerazione fisica arrivata fatalmente con l’età avanzata. Le iniezioni sono dolorose, i risultati insoddisfacenti, eppure lui persiste – soprattutto per essere, e rimanere, maschile.

Il persistente silenzio di Adrien, esercitato in realtà per nascondere la voce femminile, si legge facilmente come un’allegoria del soffocamento dell’espressione, delle emozioni nascoste. Allo stesso tempo, clamorosamente, gli cresce una pancia da gravidanza, ogni giorno più grande e più dolorosa: un vistoso sintomo a ricordarci che dietro (dentro?) Adrien c’è Alexia, una femmina. Padre e figlio sono speculari nella loro autodistruttiva performance corporale della maschilità: Vincent con gli steroidi, Adrien con la fasciatura del petto e del ventre crescente.

Dalla lotta alla danza

All’estrema fisicità della performance del maschile si contrappongono una solitudine e un isolamento quasi palpabili. Come ha detto la stessa Ducournau, «la tensione nasce da una situazione apparentemente domestica», perché la domesticità che i pompieri creano è sostanziata di continua fatica e necessità di nascondersi.

Il momento più sovversivo e il punto cruciale del film è la danza di Adrien in cima a un camion di fronte ad altri giovani pompieri. Invece di eseguire una versione solista del mosh pit che tutti si aspettano, Adrien mette in scena una danza sensuale che abbiamo visto performata da Alexia all’inizio del film: i suoi fianchi ondeggiano, tocca provocatoriamente il suo corpo di armatura.

Mentre i robusti pompieri lo guardano, incapaci di conciliare l’atto e l’apparenza, le loro facce mostrano una miscela di confusione, desiderio, e disgusto. Di fronte a un uomo che non si vergogna del femminile in sé, quelle creature ipermaschili sono in crisi.

Il potere della vulnerabilità

Un uomo con cui sono uscita di recente, perché mi piaceva, mi ha detto una sera che è imbarazzato dalle sue gambe geneticamente lisce. Non ha mai avuto peli lì e se ne vergogna davanti alle donne, perché teme che lo trovino troppo effeminato. In un’altra occasione mi ha detto che spesso gli viene chiesto se è gay, anche se non lo è, per niente.

Io in realtà lo trovavo perfettamente meraviglioso per il suo modo speciale di comportarsi, non alterato da una pretesa di maschilità standard, eppure non meno maschile di per sé. Al contrario, nella sua espressione di insicurezza sulla performance di genere ho trovato qualcosa con cui posso connettermi, anche se ci arriviamo da prospettive completamente diverse.

Nel film di Ducournau, la vulnerabilità gioca un ruolo altrettanto fondamentale: solo quando le loro finzioni vengono abbandonate – quando Adrien conforta Vincent in overdose, collassato in bagno, e Vincent sente perciò la sua voce femminile – si manifesta pienamente l’amore nato tra i due protagonisti.

Nella terrificante realtà di etero-patriarcato che il film ricostruisce, la performance di un certo tipo di maschilità sembra un male necessario. Eppure non posso fare a meno di notare costantemente quanto possa essere lesiva di un autentico legame umano, almeno quando è in rima con una stoica virilità priva di tenerezza e comunicazione: uno stereotipo di maschilità certamente superato, eppure che ci riguarda tutti e tutte, qualunque genere ci sia stato assegnato alla nascita.

© Riproduzione riservata