Yuval Harari è una specie di Alessandro Barbero planetario. Entrambi si occupano di storia, di tutta la storia; entrambi sono dei formidabili divulgatori; entrambi fondano la loro popolarità solo parzialmente sui libri (che pure vendono centinaia di migliaia di copie) ma anche su lezioni online, video, registrazioni di conferenze. C’è però una differenza saliente tra i due.

Barbero resta uno storico, anche se, contrariamente a quello che di solito gli storici fanno, cioè concentrarsi su un periodo o una nazione, passa da un’epoca all’altra e da una battaglia all’altra, da Adrianopoli a Waterloo a Caporetto. Yuval Harari, invece, non è uno storico. Anche se ha studiato e insegna storia (alla Hebrew University di Gerusalemme) è un’altra cosa. Se fosse nato un secolo fa non avremmo avuto nessuna remora a definirlo non uno storico, ma un filosofo della storia. Infatti Harari non si occupa soltanto di passato; si occupa anche di futuro, e non si fa scrupoli a interrogarsi sul senso e sulla direzione della storia. Anche se non cita mai i filosofi (con l’eccezione, ma quando proprio è tirato per i capelli a farlo, di Rousseau e di Nietzsche), quello che fa è più simile a quello che in passato hanno fatto Vico, Hegel o Spengler che a quello che hanno fatto Tucidide, Ranke o Marc Bloch. Come spesso capita a chi fa filosofia della storia, finisce anche lui per parlare di fine della storia, incurante del fatto che tutti quelli che si sono lasciati trascinare a profetizzare che la storia era finita sono stati smentiti abbastanza rapidamente e in qualche caso (da ultimo quello grottesco di Fukuyama) si sono coperti di ridicolo.

Ma proprio perché non è uno storico ma un filosofo della storia, le idee di Harari sono estremamente utili per capire certi orientamenti del nostro presente, certe idee fisse e certi preconcetti. Ci portano in pieno al centro di quello che potremmo chiamare, se non fosse un’espressione degna appunto di un filosofo della storia, lo spirito del tempo.

L’idea di progresso

Una cosa molto interessante è per esempio il fatto che Harari riabilita pienamente la nozione di progresso, un concetto con il quale, dopo le catastrofi della storia del Novecento, avevamo tutti qualche problema. Un filosofo (non della storia) come Gennaro Sasso ci aveva spiegato come la nozione di progresso fosse entrata in crisi, travolta dalle rovine di due guerre mondiali, dai genocidi e dalle letali utopie del secolo scorso (in un libro di quasi quarant’anni fa, Tramonto di un mito, che non a caso però rielabora una voce della Enciclopedia del Novecento). Harari la resuscita senza porsi tanti problemi, prospettandoci addirittura il passaggio dell’essere umano da animale a dio, da creatura indifesa a individuo capace di progettare integralmente la propria esistenza, in quello che resta il suo libro fondamentale Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità.

Per mettere in atto questa riabilitazione dell’idea di progresso Harari si serve di un trucco che, come un prestigiatore troppo sicuro di sé, non fa neanche molti sforzi di tenere nascosto. Il trucco è quello di ridurre il progresso storico a un solo aspetto del progresso, il progresso scientifico. Si capisce che mettere così le cose significa farsela abbastanza facile, non solo perché siamo tutti convinti che la scienza progredisca, ma anche perché l’idea che la scienza e la tecnica siano arrivate ormai a potere qualsiasi cosa, solo che lo vogliano, è un’idea, per quanto errata, che crediamo circoli solo da poco. Quel che potrebbe contribuire a relativizzare questa affermazione, e che Harari non vede, è il fatto sorprendente che l’uomo ha sempre avuto questa impressione; anche in epoche che oggi ci appaiono particolarmente arretrate o indifese, e comunque lontanissime dalle nostre capacità di dominio.

Quando alla fine del Settecento i fratelli Montgolfier fecero volare il primo aerostato, il pallone ad aria calda destinato a prendere il loro nome, il poeta Vincenzo Monti scrisse un’ode, appunto Al signor di Montgolfier, che è utile tenere presente, anche se non per i suoi meriti poetici, per la verità abbastanza esigui. Monti celebra con parole ispirate i progressi della chimica (confondendo il pallone a idrogeno che si sperimentava in Inghilterra con quello ad aria calda dei Montgolfier), e gli pare che l’umanità sia arrivata a gettare lo sguardo nelle sorgenti della vita stessa («E le sorgenti apparvero/ove il creato ha vita»). Non solo: ha l’impressione che ormai non ci siano più limiti e che tutto sia a portata di mano, inclusa la vittoria sulla morte. «Che più ti resta?»: appunto, solo vincere la morte.

Ma persino 2.500 anni fa, in un coro dell’Antigone, Sofocle celebrava la terribile e stupenda capacità dell’uomo di dominare tutta la natura e di asservirla al proprio benessere, arrestandosi solo davanti alla morte.

La fine della storia

Il secondo trucco che Harari deve mettere in atto per accreditare la rivoluzione scientifica come fine della storia consiste nel negare valore e togliere ogni peso alle altre forme del progresso civile. Le conquiste sono solo scientifiche e il motore dell’avanzamento è solo nella scienza. Tutto quello che accade sul piano giuridico, economico, sociale, tutto ciò che gli uomini pensano intorno al modo in cui organizzare la propria vita è degradato a mito, a qualcosa che è frutto solo dell’immaginazione e non ha riscontro oggettivo. Mito è il codice di Hammurabi, ma mito è anche la Dichiarazione di Indipendenza. Dove, con un colpo solo, si consumano due stravolgimenti. Il primo consiste nell’insinuare il dubbio che tra un codice che prevede la legge del taglione come principio basilare e uno che fa lo stesso con la libertà e l’eguaglianza non ci sia differenza; il secondo è non capire che la codificazione scritta di un diritto (per quanto barbarico esso sia) costituisce un incalcolabile progresso rispetto a una situazione in cui non esiste nessuna oggettività della legge.

Con la stessa disinvoltura Harari mette sullo stesso piano le religioni e le convinzioni filosofiche e politiche, arrivando a vere e proprie enormità come affermare che la moderna dottrina della libertà dell’uomo è figlia della fede cristiana. Come no, lo vada a raccontare a Giordano Bruno, a Pietro Giannone, a Voltaire, poi ne riparliamo. La sua idea è che non solo il progresso futuro, ma anche l’evoluzione della storia negli ultimi cinque secoli, sia stata dettata solo dalle scoperte scientifiche, e non da bazzecole come l’avvento della secolarizzazione, lo scontro tra religioni, i nazionalismi, le lotte tra le classi ecc. Tanto, scrive, con gli sviluppi della scienza «il dibattito odierno fra le religioni, le ideologie, le nazioni e le classi sociali è destinato a scomparire».

Harari si deve essere reso conto che una narrazione così bolsamente ottimistica, se da un lato andava incontro a qualche bisogno di rassicurazione e quindi poteva procurargli un po’ di consenso, d’altra parte poteva anche riuscire irritante, e nei libri successivi è corso ai ripari teorizzando non solo le grandi prospettive aperte dalla scienza ma anche le minacce che lo sviluppo scientifico porta con sé. Così ha dato spazio al rischio della crisi ecologica del pianeta o a quello che potrebbe derivare da una dittatura degli algoritmi e da una vita sociale sempre più manipolabile attraverso l’enorme congerie di dati di cui chi governa può disporre. Non gli è stato troppo difficile perché evidentemente la crisi ecologica è proprio l’esempio di un rischio epocale che è direttamente indotto dallo sviluppo economico-scientifico, tanto vero che attraversa imparzialmente le società contemporanee indipendentemente dalla loro organizzazione sociale e politica.

Scenari chimerici

Ma la fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità gli è rimasta appiccicata in modo tenace. Per esempio nella convinzione che l’uomo stia per farsi dio, cioè per poter determinare totalmente il proprio essere biologico, fino a superare la morte. Ora, francamente questa prospettiva ci appare un po’ più remota di quel che pensa Harari, e questo, se da un lato ci fa tirare un sospiro di sollievo, dato che non poter morire mai è una prospettiva abbastanza agghiacciante, dall’altro conferma una certa sua tendenza ad abbandonarsi a scenari chimerici.

Anche se Harari tende a dimenticarlo, e a ricordarci ogni piè sospinto che carestie, guerre e malattie vanno scomparendo, temiamo infatti che il suo punto di vista sia leggermente esagerato. Ci si ammala ancora, e si muore ancora, anche in guerra; metà dell’umanità è retta da regimi dispotici; troppa gente vive ai limiti della sussistenza; le disuguaglianze di genere sono ancora enormi in una quantità di paesi, inclusi quelli avanzati, in troppe nazioni i detenuti sono in condizioni inumane ed esiste la pena di morte, milioni di persone non hanno accesso all’istruzione. Ne abbiamo di cose da fare prima di diventare immortali. Verrà il mattino, ma è ancora notte.

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