«Volevo leggerti questo paragrafo del manuale di primo soccorso, perché secondo me ti darà l’ispirazione giusta per affrontare la giornata: ci sono vari tipi di emorragia, per esempio la melena che è l’emorragia dell’intestino ha la consistenza dei fondi di caffè, poi ce n’è un’altra che ti tinge le urine di color marsala…»

La voce arriva dal tavolo della colazione. È impastata ma già tradisce un cervello molto attivo, al contrario di quello di chi sta ricevendo informazioni non richieste sul primo soccorso. Si è svegliato sul divano, ha soppesato il suo stato di salute e concluso di aver bevuto troppo e male. Chiede alla coinquilina, ignorando del tutto la questione delle emorragie: «Secondo te è normale che abbiamo quasi quarant’anni e viviamo come a venti?».

La coinquilina risponde che la crisi del 2008 ha tolto alla loro generazione e alle successive il diritto a immaginare un futuro, ma tutto sommato anche il dovere di fare finta che i corollari dell’età adulta esistano sul serio e non siano un costrutto culturale. Poi inizia il frastuono. Lui si preme le mani sulle orecchie in uno sforzo vano, lei impassibile mastica biscotti. Gli dice di stare tranquillo, che presto finiranno, che sono solo i bambini che passano sotto alla finestra percuotendo pentole in onore di San Martino. Il dodici di novembre il cielo è latteo ma almeno non piove, lui adesso dice alla coinquilina di ricordargli, per piacere, perché fino all’alba gli pare che abbiano parlato proprio di bambini.

Vicino alla stazione dei treni c’è un campo, cioè una piazza, che come molte altre è dedicata a un santo. Si trova in una zona che le guide alla moda definirebbero autentica. Pare protetta da una calotta invisibile con il potere di essere refrattaria ai turisti o, comunque, di esserlo molto di più rispetto ad altre aree. Tutto intorno la toponomastica applica riferimenti organici alla pietra (ci sono altri campi dedicati a santi ma stavolta con la testa staccata dal collo, ponti delle tette, teatri anatomici…).

«Se fai uno sforzo magari puoi arrivare a ricordare – dice la coinquilina – che ti stavo raccontando della locanda di Biagio». Saranno stati i primi del Cinquecento - prosegue lei come se stesse parlando di fatti risalenti a un’estate fa -, e in città c’era una gran carenza di carne. A Biagio invece non mancava mai. Faceva un guazzetto in umido da mandare ai matti residenti e visitatori, lavorava senza posa. Sarà stato stanco o sarà stato distratto.

Comunque pare che qualcuno un giorno, sprofondando nella sua scodella di guazzetto, assieme ai pezzi di carne ben lavorata ci abbia trovato pure un dito. Era molto piccolo, ma completo. E Biagio, come ti accennavo, non ha fatto una bella fine, però hanno dato il suo nome a una riva. Una via che costeggia il canale, dirimpetto a dove stava la locanda, è tutta per lui nei secoli dei secoli.

Finito di parlare, la coinquilina riflette un attimo con gli occhi fissi nella tazza, poi dice: «Ti rendi conto? È come se a Firenze ci fosse Largo Pacciani». Ha illustrato tutto a voce sforzata, di gola, per sovrastare il clangore dei piccoli pugni battuti sulle pentole. Mentre i bambini si allontanano liberando il silenzio da quello stato di assedio lui, allentate le dita che premevano sulle tempie, le chiede ma perché hai pensato fosse una buona idea raccontarmi questa storia orrenda? Lei risponde: «Perché avevi appena detto che tu, a camminare di notte a Venezia, non hai mai avuto paura».

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