Ennio Flaiano: si dice spesso, quasi sempre, che fu uno degli scrittori italiani più sottovalutati. Ma forse non è vero. In realtà Flaiano è stato uno degli scrittori, forse lo scrittore più inclassificabile che abbia attraversato la nostra scena letteraria.

In primis, perché per lui la scena letteraria non esisteva, e se anche fosse esistita non andava presa sul serio: «Oggi tutti scrivono. Chi non scrive sta raccogliendo il materiale. Andando avanti di questo passo, un giorno avremo uno scrittore ogni cento abitanti» ebbe a scrivere da qualche parte.

E qui, abbiamo forse la seconda ragione della sua fantasmagorica presenza (o assenza) nel pantheon della letteratura italiana: le battute. Il paese di Achille Campanile e di Totò considera la comicità una cosa di serie B, un affare vagamente bieco e residuale. In altre parole: l’intrattenimento non è una cosa seria. Lo stesso Totò, oggi considerato giustamente un genio, fu trattato dalla critica con sufficienza se non con derisione finché non recitò per Pier Paolo Pasolini.

Seppur in modo completamente diverso, a Flaiano toccò un po’ la stessa sorte: fu sempre considerato un grande battutaro, un inventore di epigrammi e di dialoghi, di bozzetti, di occasioni, e non il grande scrittore che invece è stato, e ancora oggi è. A cinquant’anni dalla sua scomparsa, avvenuta a Roma il 20 novembre 1972 a sessantadue anni (era nato a Pescara nel 1910), Flaiano è infatti uno degli autori più attuali che si possano leggere. Non solo non invecchia ma ringiovanisce. La sua visione lucidissima della realtà italiana attraversata dagli anni Venti fino alla morte, riassunta spesso in brevi fulminanti prose, resta una delle più profetiche. 

Battuta e riflessione

Foto LaPresse

Flaiano in realtà è stato un grande pensatore, il cui stile sintetico, aforistico è debitore tanto alla satira quanto alla tragedia: «La situazione è grave ma non seria» è una delle sue frasi più celebri. «Il nostro paese» scriveva nel gennaio 1965 nel Diario degli errori, «non ha più niente da dirci, né abbiamo più niente da dirgli.

Tra noi e l’architettura di queste città, chiese, palazzi, piazze, che esigono una vita calma, meditata sulla rinuncia e l’idolatria del piacere, il discorso è finito. Una mano di modernità, lo sforzo di renderle adatte ai tempi, l’irrompere delle macchine, hanno messo in luce solo l’anacronismo della loro sopravvivenza. Non possiamo rifiutare la vita come ci è data, ma il luogo per accettarla non è più quello adatto.

Non possiamo corromperci in un ambiente che non esprime più la gioia del suo passato ma l’accettazione della commedia moderna. Non vogliamo aspettare i visitatori, la parte dei custodi non ci piace. Altri orizzonti, altri cieli meno fastosi ma più nostri ci attendono.

Trovare sotto quei cieli la forza di andare avanti, rifiutando il cinismo che le vecchie pietre ci hanno insegnato; non avendo altro da proporci, per anni e anni, che l’elogio della sopportazione». Dietro l’apparente disincanto di una riflessione del genere c’è tutto il Flaiano migliore, che è innanzitutto quello della lingua usata in modo esemplare: «Il cinismo delle vecchie pietre». Cosa c’è di più esatto dell’uso di “cinismo” con questa metafora? 

E dunque ecco l’equivoco che ha nascosto Flaiano alla gloria che merita e che si riassume in un interrogativo: quanto la riflessione in Flaiano è battuta e quanto la battuta è riflessione? Se poi la penna del pescarese si è orientata molte volte a indagare le sciocchezze, le debolezze, i vizi, i tic, la involontaria comicità degli italiani, è perché, come disse Pietro Citati, Flaiano ne era fatalmente attratto.

Scriveva il critico: «Per Ennio Flaiano non esisteva nulla di più bello e affascinante della stupidità; e lui amava, ed immaginava e coltivava gli stupidi, i cretini, gli idioti – lassù, felici e beati sulla vetta del mondo. La stupidità gli bastava – come la scultura bastava a Canova, il romanzo storico ad Alessandro Manzoni, le storie fantastiche e terribili a Poe, la poesia a Emily Dickinson. I giornali di ieri e di oggi erano stupidi: il fascismo era stupido: Galeazzo Ciano e la moglie erano stupidi; e Mussolini era sovranamente stupido…». 

La biografia

Flaiano ebbe un risveglio violento a questa colossale stupidità quando nel 1935 partì per la campagna di Etiopia come soldato nell’VIII Corpo del Genio con il grado di sottotenente, esperienza sulla quale poi scrisse: «Una guerra a cui ho preso parte e che mi ha portato ventiquattrenne a ripudiare il fascismo e a desiderare che la cosa finisse, brutalmente, nella sconfitta».

È da quella drammatica esperienza africana che nascerà, dieci anni dopo, il suo primo e unico romanzo Tempo di uccidere pubblicato da Leo Longanesi (scritto di getto in un freddissimo inverno milanese) con il quale Flaiano vinse la prima edizione del Premio Strega nel 1947, successo che sente subito abbastanza effimero (famosa la frase appuntata moltissimi anni dopo: «Un critico scrisse che mi aspettava alla seconda prova: sta ancora aspettando»). 

Era nato, dunque, a Pescara, la terra di Gabriele D’Annunzio, nel 1910. 

Aveva sei fratelli, famiglia modesta, che lo manda in collegio a Senigallia. Da ragazzo resta impressionato dalla lettura del Corvo di Poe e da Madame Bovary di Flaubert, poi Salgari, Jules Verne e Baudelaire. In una coincidenza curiosa, e infatti sulla cosa usava scherzaci su, nel 1922 anche lui compie la sua “marcia su Roma”.

A dodici anni viene spedito al Collegio Nazionale e poi resta nella capitale per tutta la vita. Si iscrive ad Architettura ma non prosegue. Qui comincia una delle sue amicizie più salde, quella con il pittore marchigiano Orfeo Tamburi, con cui divide una stanza in una pensione. L’architettura però non è passata per caso, perché i primi lavori nel mondo romano lì fa come scenografo negli spettacoli di Anton Giulio Bragaglia.

Nei primi anni Trenta cominciano le sue collaborazioni giornalistiche su riviste come Occidente o Quadrivio (siamo ancora in una fase di osservazione tollerante al fascismo: la rivista è diretta dal fascistissimo Telesio Interlandi). Per questo, poi, Flaiano, dopo la guerra, parlerà di ripudio. Un rifiuto netto, sul quale scriverà pagine importanti, definizioni lapidarie («Il fascismo ha la spocchia del servo arricchito»).

Redattore cupo

Il 1940 è un anno importante perché sposa Rosetta, la donna con la quale già vive da tempo e che resterà sua moglie per tutta la vita. E nel 1942 nasce Luisa, detta Lè-lè, figlia amatissima e affetta da gravi disturbi, che sarà la sua spina nel cuore per sempre. Gli anni di guerra sono quelli in cui Flaiano comincia a lavorare per il cinema, come critico e consulente, poi sceneggiatore, per registi già affermati come Alessandro Blasetti e altri.

Non abbandona l’attività giornalistica, scrivendo sul Risorgimento liberale di Mario Pannunzio. Tra cinema e giornali, il suo nome gira. Ed è proprio grazie a queste prime cose firmate con il suo stile che Longanesi, appena finita la guerra, lo sprona a scrivere il suo romanzo africano. A Milano, dove vive per un periodo, frequenta Oreste del Buono, Giuseppe Marotta, Achille Campanile, Mario Soldati. Quando Pannunzio fonda Il Mondo, settimanale che per l’approccio moderno alla grafica, ai temi, alle immagini, cambierà il corso del giornalismo nostrano, Flaiano viene nominato redattore capo (carica da lui modificata prontamente in “redattore cupo”).

Ma Flaiano è inquieto: i ruoli fissi non gli garbano, si sente stretto. La sua natura di inclassificabile emerge a cicli, spostandolo di qua e di là. Nel 1950 passa un periodo a Parigi frequentando surrealisti e scrittori come Jean Cocteau e Raymond Queneau. Poi torna a Roma e diventa una figura fissa dei caffè come il Rosati e delle librerie come Rossetti. Diventa amico di Federico Fellini, con il quale, da Luci del varietà, comincia una collaborazione che durerà fino a Giulietta degli spiriti, amicizia finita bruscamente per incomprensioni. In una celebre lettera al regista gli scrive: «Potrei scusarti con la tua vanità, ma se penso che fra noi c’erano dei legami di lavoro e di amicizia, non trovo più scuse. Siamo in pieno Rossellini, ma senza grandezza. A questo punto, caro Fellini, devo onestamente dirti: continua pure, ma non contare più su di me».

Di questa lettera, uno stralcio è contenuto del libro di Renato Minore e Francesca Pansa, Ennio l’alieno. I giorni di Flaiano (Mondadori), da poco uscito, che ripercorre in modo appassionato e puntuale le tante vicende della vita dello scrittore. Minore fu in prima persona testimone della fase finale, e forse quella più amara, di Flaiano. Un capitolo è proprio consacrato a una serie di lettere con i più disparati corrispondenti (c’è anche lo stesso Minore), da Cesare Zavattini all’amico carissimo Mino Maccari, dal romanziere napoletano Michele Prisco («Non ti meravigliare se La provincia addormentata riscuote esclusivamente recensioni turistiche (…) L’avvenire delle terze pagine è sulle ginocchia dei fessi») al grande giornalista Arrigo Benedetti («Ogni forma di lotteria ci disgusta da quando la Lotteria è diventata filosofia nazionale»). Scrive nel 1961 una lettera rassegnata a Vittorio Gassman, che era stato a Milano al Teatro Lirico il protagonista della sua commedia Un marziano a Roma, un fiasco colossale che chiuse i battenti in anticipo. Da questo episodio nasce il famoso equivoco sulla celebre battuta: «L’insuccesso mi ha dato alla testa».

Ma non era sua, era di Mino Maccari, che gli disse: «Ennio, l’insuccesso ti ha dato alla testa». Secondo Minore e Pansa, attraverso le lettere di una vita (raccolte per altro in un gigante volume Bompiani preziosissimo), si delineano tre grandi fasi della sua esistenza. La prima, nella quale Flaiano scrive all’amico Orfeo Tamburi, «è quella della prima giovinezza con le grandi speranze subito mortificate dalla guerra in Etiopia.

Appartengono a questi anni le paure e le disperazioni, le euforie e gli smarrimenti di un giovane alla ricerca della sua strada tra le prime collaborazioni giornalistiche e i caffè romani degli anni Trenta». Dopo la guerra, annota Minore, «Ennio diventa il Flaiano di Tempo di uccidere, così poco ricco da scrivere», lo confessa a Maria Bellonci, «gli ultimi capitoli del romanzo che avrebbe finto il Premio Strega sul rovescio delle pagine di una sceneggiatura».

Fase, come abbiamo visto, in cui Flaiano lavora molto nel cinema, tanto, scrive Minore «che può diventare un interlocutore anche scomodo di registi come Alessandro Blasetti, Giorgio Moser, Jacques Deray, Pierre-François Sauter, François Truffaut, Louis Malle».

Anni amari

La terza fase è quella degli ultimi anni: «Il “satiro” che cerca di esorcizzare i piccoli guai irritanti con il lavoraccio di tutti i giorni, la scontentezza, l’ansia. Torna agli amori letterari, riflette sul destino mozzo e incompiuto, coltiva rapporti che gli ricordano la sua lontana e non dimenticata origine abruzzese».

Pochi anni prima di morire, Flaiano lascerà su carta una sua tipica riflessione proprio su questo aspetto: «Mi chiedo quanto mi sia rimasto di abruzzese e mi rispondo: tutto». In quel tutto, c’è il «pudore dei sentimenti». Quel pudore che forse lo ha tenuto tutta la vita nascosto dietro lo schermo dell’ironia e di un disincanto che lo hanno anche un po’ tradito, stemperando la sua profondità nella frivolezza apparente della Solitudine del satiro (come è intitolato un suo bellissimo libro che raccoglie prose di tante epoche).

Pudore che ha forse amplificato la sua sofferenza interiore per la figlia e per il travagliato matrimonio con Rosetta, vicenda che il libro di Minore e Pansa ripercorre e illumina di aspetti intimi.

Nel 1971, prima del secondo e definitivo infarto, Flaiano scriveva a Giuseppina Leti: «Anche io sono stato duramente colpito dalla sorte; e questa mia figlia, l’unica, ormai ventottenne, è inferma gravemente da primi anni della nascita. Sarebbe forse stato meglio che fosse tutto toccato a me, avrei trovato la forza di abituarmici. Ma, trattandosi di mia figlia, proprio non ci riesco». A quell’epoca Flaiano già viveva da solo in un residence, proprio come accadrà anni dopo a Dino Risi. Anni particolarmente amari.

Lo aveva segnato molto la sorte cinematografica di uno dei suoi capolavori, il romanzo breve Melampus, storia di una sceneggiatore italiano a New York, che Carlo Ponti aveva acquistato per farne un film che lo stesso Flaiano avrebbe voluto dirigere ma che fece poi Marco Ferreri, con Mastroianni e la Deneuve, intitolato La cagna.

Il vecchio satiro ne soffrì molto: esiste un diario pubblicato insieme al soggetto del film dove emerge tutto l’entusiasmo che Flaiano avrebbe messo in quella avventura da regista mai realizzatasi. Aveva idee precisissime, come precise era state le sue sentenze, la sua vocazione di moralista disilluso che aveva solo la penna al suo arco e alla quale, nonostante tutto il pessimismo e l’autoironia, credeva ciecamente.

Nessuno, come lui, in due frasi, diceva tutto: «Anime semplici abitano talvolta corpi complessi». E poi, nel suo proverbiale gioco dei contrari: «In amore gli scritti volano e le parole restano». Oppure: «Chi mi ama mi preceda». E poi sulla cultura: «Il critico rovinato dalle cattive compagnie teatrali». Oppure: «È un poeta così cattivo che sette città si rinfacciano il disonore di avergli dato i natali».

Ma c’è anche un altro Flaiano, quello più nascosto e forse più vero, che nel malinconico sorriso trova la massima profondità e a volte una tenebrosa misteriosa poesia. «Non chiedete alle bottiglie di Morandi che cosa contenevano e perché stanno insieme, ora sono vuote, e nemmeno recipienti, sono l’idea di un mondo possibile, di soluzioni possibili». Flaiano era tutto quello che è stato detto di lui, e tutto il contrario. Forse si credeva un fallito, ma probabilmente si era realizzato in pieno. E alla fine di una vita così non poteva mancare l’auto-epitaffio: «Qui giace Ennio Flaiano/tra il materiale raccolto/del suo romanzo inedito/le memorie di un giorno non durano di più». 

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