Negli ultimi due anni l’attivismo sociale, e in particolare l’antirazzismo, sembrano aver acquisito un carattere curiosamente rituale. Un caso esemplare potrebbe essere quello che ha riguardato, l’8 giugno del 2020, i membri democratici al Congresso, in occasione dell’introduzione del disegno di legge “Justice in Policing”, poco dopo l’omicidio di George Floyd da parte della polizia. Nelle fotografie i membri del Congresso sono ritratti inginocchiati sul ginocchio destro. Sono rimasti in silenzio, col capo chino, per otto minuti e 46 secondi, avvolti in stole di seta ghanesi kente. Cerimonie simili sono state intraprese da squadre sportive professionistiche, celebrità o ricchi amministratori delegati come Jamie Dimon, che si è inginocchiato davanti al caveau della sua banca Chase. Ancora più esplicito è stato forse il giuramento contro il razzismo pronunciato un anno fa da diverse star di Hollywood. In un tono apertamente confessionale si sono filmati mentre assumevano la «responsabilità» per «ogni fatto accaduto lontano dagli occhi», ogni «stereotipo», per tutte le volte che «sono rimasti in silenzio» o «hanno chiuso un occhio».

Antirazzismo confessionale

L’antirazzismo sembra aver preso una svolta confessionale. In effetti, parlando del razzismo in America, in uno dei suoi corsi di formazione sulla “fragilità bianca”, la consulente sulla diversità Robin DiAngelo ha ammesso al suo pubblico che lei stessa ha convissuto con i pregiudizi «in ogni momento della [sua] vita». «Cerco più che posso di contrastare il razzismo», ha aggiunto, «ma non possiamo mai liberarcene del tutto». In modo simile, il famoso educatore antirazzista Ibram X. Kendi ha sostenuto che «antirazzista» lo si è «continuamente»; esserlo «richiede un’auto-consapevolezza persistente, un’autocritica costante e un esame di coscienza regolare». L’antirazzismo diventa allora, in sostanza, un infinito lavoro su di sé, fatto di pubbliche confessioni e di auto-esami costanti sia per le strade, sia negli spazi dedicati alla formazione nelle aziende e nelle università.

Le confessioni della carne

È in questo contesto tumultuoso che arriva la tanto attesa pubblicazione in inglese del quarto e ultimo volume della storia della sessualità di Michel Foucault, giustamente intitolato Le confessioni della carne (The Confessions of the Flesh, edito da Penguin). Il grande filosofo parla ancora una volta al nostro presente, 37 anni dopo la sua morte? La risposta è sì e no.

Ci sono molti spunti nella sua opera. Tuttavia, come è accaduto a tanti brillanti pensatori prima di lui, in alcuni casi è finito con il combattere una guerra passata, mentre una nuova stava scoppiando davanti ai suoi occhi. La sua critica alla cultura confessionale ereditata dal cristianesimo si rivolgeva all’esperienza professionale dello psicologo, del medico o dell’assistente sociale. Riteneva che nel momento in cui stava vivendo ci fosse un potenziale di rottura definitiva con quella cultura e vedeva nuove possibilità di libera creazione di sé. Dal lettino dello psicoanalista alle terapie pastorali del welfare state, Foucault si è opposto a tutte quelle tecniche e istituzioni destinate a renderci «prigionieri di certe concezioni di noi stessi e della nostra condotta», a «soggettivarci» in una certa identità.

Eppure, così gli sfuggiva il fatto che la critica delle competenze nello stato sociale, sia da parte dei movimenti sociali sia del governo neoliberista, avrebbe portato a un altro tipo di cultura confessionale, più vicina alla penitenza pubblica e ai rituali di auto-mortificazione collettiva rispetto alla confessione privata e auricolare della Chiesa cattolica. Con la privatizzazione delle competenze nella letteratura e nella consulenza del self-help, si è venuto a creare questo altro tipo di cultura confessionale nella nostra pratica politica contemporanea. Questo aspetto nuovo, che non è circoscritto soltanto alla lotta contro il razzismo, è diventato un componente centrale della nostra cultura politica contemporanea.

Dall’invito del guru del management Peter Drucker a “gestire sé stessi”, ai best seller dell’industria miliardaria dello sviluppo personale, o alle “regole di vita” dello psicologo canadese Jordan B. Peterson, il successo di questo elemento si è basato sulla lenta “interiorizzazione” dell’ordine sociale. Dalla fine degli anni Sessanta il problema si è spostato all’interno del soggetto, invece che essere individuato come una conseguenza dell’effetto delle strutture istituzionali e socio-economiche. Il cambiamento sarebbe stato riformulato come una lotta contro sé stessi, contro il proprio “nemico interiore”. Il contemporaneo di Foucault, Felix Guattari, direbbe che l’avversario «cambia faccia: può essere un alleato, un compagno, una persona al comando o anche sé stessi». Si doveva affrontare il «fascista che è dentro di noi».

La svolta verso il sé

Questa svolta verso il sé trova le sue radici nell’esaurirsi, durante gli anni Settanta e in seguito, delle utopie e delle alternative al capitalismo. Al tempo, molti intellettuali, tra cui lo stesso Foucault, annunciarono la «fine dell’èra della rivoluzione», dando inizio a un’èra in cui la trasformazione di sé stessi divenne la concezione più popolare del cambiamento sociale. Pur rifiutando i resoconti esistenziali o psicoanalitici, questi intellettuali sostenevano che con il crollo delle “grandi narrazioni” collettive ci si doveva guardare dentro, nel profondo. Cambiare il mondo significava cambiare il nostro modo di vivere il mondo, di starci dentro. Significava, sosteneva Foucault, la “fine della politica”. Tuttavia, questa “fine” non significava la fine di tutti i tipi di politica e di rivoluzione. Ciò che era in gioco, scrisse notoriamente, era lo sviluppo di «nuovi tipi, nuovi modi di rapporto con sé» liberati da questo potere confessionale ereditato dal cristianesimo. Come osservava candidamente nel 1977, «l’innovazione non passa più attraverso partiti, sindacati, burocrazia e politica. La preoccupazione è ora individuale, morale». In una definizione allargata di politica – secondo cui «tutto è politica» e «il personale è politico» – l’io è diventato lentamente il campo di battaglia privilegiato della politica contemporanea.

Questa concettualizzazione piuttosto originale di resistenza e potere, che sarebbe diventata centrale nell’eredità di quello che ha preso il nome di “Foucault della California”, fiorirà dopo il Sessantotto, aprendo lo spazio alla sperimentazione degli stili di vita. Lo stesso Foucault era stato sempre più affascinato da quelle che chiamava le “esperienze limite” con l’Lsd, il sadomasochismo, la meditazione orientale o con il martirio a cui assistette durante la rivolta iraniana, modi alternativi di produrre conoscenza e costituire il sé. Tutte queste esperienze gli hanno permesso di comprendere che l’umano è intrinsecamente informe, capace di auto-creazione estetica ed etica, di azione su di sé, può piegare e riunire i propri impulsi, la propria matericità, le forze e le energie a favore e contro, con esiti nuovi e imprevedibili. Resistenza allora significava “differenziarsi” da sé stessi, costruire l’io al di fuori dell’«ermeneutica del sé» cristiana e delle costruzioni esperte delle scienze umane moderne. E questo è esattamente ciò che potrebbero offrire la filosofia Zen in Giappone, le comunità taoiste in California e persino l’uso delle droghe: modi per immaginare soluzioni alla «crisi del concetto occidentale di rivoluzione», nella creazione autonoma di nuove soggettività. In molti modi, il defunto Foucault è stato il precursore della politica dell’identità.

Contro le aspettative di Foucault e di altri teorici, questo cambiamento tuttavia ha portato a uno spostamento delle competenze del terapeuta professionalmente accreditato dai servizi partecipativi, collettivi e pubblici a imprenditori culturali che offrono i propri servizi in un mercato competitivo. Il sé è diventato un altro mercato da conquistare, carico di guru new age, guaritori energetici, consulenti dell’alimentazione, terapisti alternativi, guide del self-help e marchi di lifestyle non tanto interessati all’organizzazione e alla costruzione di coalizioni quanto al dare inizio a un’altra «rivoluzione spirituale».

La politica, ha scritto notoriamente Christopher Lasch, «degenererà in una lotta non per il cambiamento sociale, ma per l’auto-realizzazione». Contrariamente a quanto pensava Lasch però, la crescente «sensibilità terapeutica» che osservava non è diventata una «anti-religione», basata su «spiegazioni razionali» e «metodi scientifici di guarigione», ma ha utilizzato le proprie tecniche confessionali, ripresentando all’infinito le questioni sociali come personali, con i propri atti performativi individuali e collettivi di auto-trasformazione per l’espiazione della colpa.

Moltiplicazione confessionale

La critica al nesso confessionale dello stato sociale, a cui Foucault ha preso parte, non ha portato a un ritiro dalla confessione, ma alla sua intensificazione e moltiplicazione nel dominio pubblico. Le confessioni, invece che essere silenziose e segrete nel confessionale, hanno preso le forme rumorose e pubbliche di penitenza delle prime comunità cristiane, secondo cui i penitenti dovevano “esporsi in pubblico” (publicatio sui come diceva il padre della Chiesa Tertulliano) attraverso rituali di umiliazione per scegliere la via della purezza. Come ha osservato Foucault, era «un modo di vita inscenato costantemente per l’obbligo di mostrare sé stessi».

Questo nuovo tipo di politica confessionale oggi ha la forma dei post e delle sfide sui social media, hashtag virali creati dagli influencer, delle aziende come Coca Cola o Disney che formano il personale a «essere meno bianco» e «affrontare il senso di colpa, la vergogna, l’atteggiamento difensivo». Oppure ha la forma della Cia che fa pubblicità di agenti che si esprimono contro il «patriarcato interiorizzato». Rituali simili essenzialmente sono collettivi e pubblici più che individuali e privati. La confessione non avviene di fronte al “voto del silenzio” sacerdotale, ma è del tutto pubblica. Inaugura un “lavoro per tutta la vita”, come diceva DiAngelo, per combattere il male da dentro e unirsi ad altri virtuosi. È un mondo in cui l’abbandono della lotta contro la disuguaglianza sociale ed economica ha spinto la politica verso uno scontro tra gruppi confessionali in competizione, ciascuno dei quali afferma pubblicamente che il proprio cammino autentico verso la salvezza è giusto. In un certo senso, e probabilmente contro le sue stesse aspettative, la politica degli stili di vita di Foucault ci ha portato nel mondo di Oprah e del principe Harry.

 

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