All’inizio del Novecento, sembrava che i quotidiani fossero in grado di eclissare i libri. Invece di costituire uno strumento di archiviazione stabile di informazioni affidabili, la stampa dava l’impressione di trasformarsi in uno strumento “vivo” e volatile che basava il suo valore solo sulla freschezza dell’informazione, destinato a un consumo distratto.

Il libro totale

Ad alcuni pareva come se il concetto stesso di codice fosse sul punto di esplodere in una nube di informazioni sempre più effimera, per non dire volgare. Come affrontare questa crisi? Due risposte si manifestano verso l’inizio del Novecento. La prima, formulata dal poeta Stéphane Mallarmé nel suo saggio Il libro. Uno strumento spirituale, accoglie lo spettro dell’intero universo che fluisce in un libro totale: un libro materiale e metafisico che adempie e trascende la rivoluzione inaugurata da Gutenberg tramite un voltafaccia alla produzione industriale dei libri e alla loro standardizzazione dei formati stampa. Agli occhi di Mallarmé, il giornale invece rappresentava un oggetto allo stesso tempo primitivo e precursore del futuro.

Lo spettacolo di magia per le masse non è altro che una fantasmagoria prodotta da macchinari mediatici, elettrificati a regola d’arte. È proprio questo il tipo di spettacolo sul quale era modellata la seconda risposta alla crisi del libro: il libro elettrico.

Il libro elettrico

La democratica promessa del libro elettrico sarà portata a compimento in maniera graduale nel corso della lunga transizione dalla pagina allo schermo (o poi ancora in senso inverso). È quindi importante stabilire che il libro elettronico non costituisce un’invenzione dell’era di internet. Piuttosto, la sua discendenza si spinge indietro fino ai libri sperimentali delle prime avanguardie e in avanti verso i dynabooks degli anni Sessanta, e ancora più avanti fino alla proliferazione attuale dei dispositivi di lettura e formati ispirati alla rete. In ognuna delle fasi di questa evoluzione secolare si registrano significativi slittamenti – e significative continuità – nel modo in cui i libri sono compresi, letti, usati, prodotti, condivisi e disseminati.

I movimenti futurista e costruttivista segnano un momento chiave nella riconcettualizzazione del codice come strumento tendenzialmente vivo e interattivo, indirizzato a un pubblico di massa. I libri futuristi eleggevano a loro musa la fata dell’elettricità, modellavano la loro poetica in base al design delle prime pagine dei quotidiani ed erano concepiti come copioni di performance tenute dal vivo. Assumevano la forma di improvvisate edizioni tascabili, composte da sequenze di tavole tipografiche e proclamazioni teoriche. Quelli costruttivisti, teorizzati qualche anno più tardi da El Lissitzky in un manifesto intitolato La topografia della tipografia, aspiravano a diventare libri “bioscopici” la cui successione di pagine è il preciso equivalente della successione dei fotogrammi visivi che compongono un film. Il loro destino finale? L’elettrobiblioteca, secondo El Lissitzky stesso.

Oltre al libro “bioscopico” o “tipofotografico” come lo chiamerà poi Moholy-Nagy nel contesto del Bauhaus, nell’arco del ventesimo secolo è andata consumandosi un’ampia gamma di etichette, ma non la convinzione che la galassia del libro gutenberghiano sia stata distrutta dalla fotografia, dalla telegrafia, dalla telefonia, dalla radio, dal cinema (come, più tardi, dai media digitali). Si è aperto un abisso tra la pagina stampata dell’Ottocento – con le sue geometrie standardizzate, la subordinazione delle immagini al testo e la linearità cognitiva – e la vita contemporanea, con la sua simultaneità, le sue cadenze accelerate e la sua sovraccarica multisensoriale. La soluzione è consistita nel ristabilire ciò che Moholy-Nagy indica come «una corrispondenza»: per gettare un ponte sull’abisso attraverso una modalità di comunicazione libraria più libera e più veloce.

Saltiamo agli anni Sessanta, al momento in cui una nuova generazione di libri tascabili si avviava a essere percepita come televisiva. La più celebrata è stata realizzata dal grafico Quentin Fiore: The Medium is the Massage (1967). Firmata da Marshall McLuhan e da Fiore, prodotta da Jerome Agel e accompagnata da un vinile («il primo LP di arte parlata che puoi ballare»), l’opera è stata sviluppata rifondendo brani scelti di McLuhan in una rassicurante narrazione dello sconvolgimento socioculturale provocato dalla prima era cibernetica. Poiché tutto si sta muovendo a ritmo così rapido, propone l’opera, i modelli comunicativi e, di conseguenza, i libri devono tutti sottostare a un processo di riconfigurazione.

Legami non verbali

Prodotto nel linguaggio della televisione, The Medium is the Massage mira a intraprendere un processo di riorganizzazione cognitiva e, a tal fine, richiede ai lettori un approccio alla lettura non lineare, basato sulle forme di riconoscimento del legame visuale/verbale che McLuhan considerava essenziali alla sopravvivenza e al successo nell’era dell’informazione elettronica.

Il mondo delle telecomunicazioni in cui The Medium is the Massage si stava avventurando includeva precoci ideazioni degli attuali dispositivi di lettura elettronica come il dynabook di Alan Kay. Nato nel 1968 come una «macchina per l’insegnamento», il dynabook era progettato per: «dotarci di un libro migliore, più attivo». Il dynabook aspira a eguagliare la stampa per quanto concerne tipografia e grafica, mentre aspira a superare la stampa con la sua velocità, la sua flessibilità e le sue capacità di archiviazione. Soprattutto, offre la promessa di nuove fenomenologie di accesso su scala di dispositivo personale che permette ai libri di «essere instanziati invece che comprati o presi in prestito».

Quello che il dynabook prevedeva a misura di dispositivo personale, altri lo stavano esplorando in termini spaziali. Perché non trasformare il mondo stesso in un panorama informatico? E perché non sostituire rigide convenzioni di impaginazione con un approccio fluido che comprende “pagine” ridimensionabili, blocchi flessibili di dati e zoomabilità? Tale era l’ambizione di dataland, sviluppato dall’Architecture machine group del Mit. Guidata da Nicholas Negroponte, futuro fondatore del Mit Media Lab, dataland assumeva la forma di una consolle di dispositivi attorno a una sedia Eames, che permetteva la navigazione di interfacce sonore, visive e tattili. Anche se i suoi file erano multimediali, l’ambiente era modellato sulla scorta di una (elettro)biblioteca in base al principio che quando si cerca un libro, non si scorrono tanto i titoli, quanto la relativa collocazione del libro all’interno di una libreria.

Mentre dataland stava prendendo piede, Negroponte e la sua collaboratrice Muriel Cooper, da tempo direttrice della Mit press, hanno cominciato a definire il progetto in termini di «libri senza pagine». In una conferenza presentata nel 1978 hanno sostenuto che è venuto il momento di investigare «nuove opportunità [che] includono la personalizzazione, la sincronizzazione dei suoni, l’accesso ai dati spaziali». Questi erano soltanto alcuni tra i temi che il Visible language workshop di Cooper avrebbe esplorato fra il 1973 e il 1985, assieme alla stampa digitale a distanza, al design dell’interfaccia in 3D e a nuove concezioni di autorialità. All’interno del Visible language workshop, problemi riguardanti i dataland di domani sono stati rigorosamente saldati a un lavoro concentrato sulla stampa e sulla (ri)definizione dei libri analogici. Vale a dire che qui le fila della sperimentazione mallarmeiana e marinettiana sul futuro del libro sono state riannodate assieme con l’obiettivo di esaudire le necessità della comunicazione e le possibilità dell’era digitale.

Estratto della lezione nell’ambito del programma culturale di Ago Modena Fabbriche Culturali

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