All'inizio di Public Speaking, il documentario meraviglioso che Martin Scorsese decise di costruirle attorno dieci anni fa, Fran Lebowitz racconta una storia che – come praticamente qualunque cosa dica – è al contempo un'analisi spietata, una grande verità e un aneddoto irresistibile che sembra scelto dalle vignette del New Yorker: un ricco collezionista d'arte vuole mostrare agli amici il suo ultimo acquisto, un Picasso. Nel farlo dà per errore una gomitata al quadro, strappandolo: il fatto è che l'uomo non è semplicemente goffo. È cieco. “Non esiste un'immagine più potente di questa. Se dovessi scrivere una cronaca della nostra epoca la chiamerei Il collezionista cieco (e altre storie)”, chiosa Lebowitz scolpendo l'epitaffio definitivo della nostra società senza più gusto né talento né competenza ma piena di gente che ne millanta il possesso combinando disastri terribili.

Non leggeremo mai Il collezionista cieco né tantomeno le altre storie, perché Fran Lebowitz – pensatrice, oratrice, fumatrice - è da molti anni una scrittrice emerita: emerita nel senso di insigne, in quanto donna più spiritosa del mondo; e soprattutto nel senso di scrittrice che non esercita più. Arrivata a New York dal New Jersey a 19 anni, espulsa da scuola prima del diploma, si è mantenuta guidando un taxi e facendo le pulizie guadagnando lo stretto necessario per vivere e dedicarsi alla sua più grande passione dopo il tabagismo: osservare gli altri per giudicarli. Frutto di questa antropologia sardonica sono state le raccolte di saggi Metropolitan Life (1978) e Social Studies (1981). Dopo, a parte articoli sparsi e un libro per bambini (“È più facile scriverli perché i disegni prendono metà dello spazio”) un blocco assoluto e insormontabile, spiegato a sé stessa e agli editor disperati in vari modi tutti egualmente tatuabili: “Scrivo così lentamente che potrei farlo col mio sangue senza morire”; “Ho un problema gravissimo con l'autorità, anche quando è la mia”; “Solo quelli che non sanno scrivere amano farlo”. Ma gli anni di inattività non sono per fortuna andati sprecati, perché persino nel ventunesimo secolo esistono nicchie ancora capaci di riconoscere un talento quando ne vedono (o ne ascoltano) uno, e Fran Lebowitz è stata nominata per acclamazione oracolo di Manhattan e ultima voce della ragione, unica sacerdotessa superstite dell'arte perduta della conversazione brillante. Conversazione che è poi in realtà monologo fluviale, interrotto solo dalle domande del pubblico disposto a pagare per interrogarla e essere insolentito e illuminato dalle sue parole definitive sull'universo, come abbiamo visto in Public Speaking e vediamo adesso in Pretend It's a City, il sequel da poco disponibile su Netflix sempre diretto da Martin Scorsese, estatico sparring partner delle arguzie della sua star.

Sentenze senza appello

Pretend It's a City è stato incautamente tradotto nella edizione italiana Fran Lebowitz: Una vita a New York, un titolo che sembra promettere rivelazioni da biopic che la misantropa per eccellenza non ha mai concesso neanche ai suoi antichi lettori, figuriamoci agli abbonati allo streaming. Le uniche cose che Fran ci rivela nei sette episodi della docu-serie sono le sue innumerevoli idiosincrasie che noi possiamo solo ascoltare con Scorsese e diverse guest star (che la interrogano ma non sono così sceme da ribattere: l'unico che ci prova è Spike Lee, e mal gliene incoglie) e magari annotare per il brivido di possedere un suo libro inedito, sia pure in formato bootleg. Perché come spiega alla sua grande amica Toni Morrison – un premio Nobel, la misantropia di Fran Lebowitz giustamente dilegua davanti ai giganti del secondo Novecento americano, tutti assiduamente frequentati – lei non vuole invitare il lettore o lo spettatore nelle sue opere: “Non sono una padrona di casa, sono un pubblico ministero”. E non è solo una battuta: pur di non mettersi a scrivere la nostra ha interpretato per anni un cameo nella serie tv Law & Order nel ruolo di giudice (ripreso poi in The Wolf of Wall Street), realizzando almeno nella fiction il suo sogno di condannare il prossimo con conseguenze finalmente reali: “Non capisco perché i giudici ci mettano così tanto per arrivare a un verdetto, io ci metterei due minuti”.

Le sentenze senza appello di Fran sono infinite: contro la gentrification di New York, ormai luna park a tema completamente ripulito da promiscuità e pericolo che negli anni Settanta la rendevano destinazione obbligata di artisti e intellettuali (“Non sono venuta qui perché era pulito, vengo già da un posto pulito. Venivano tutti qui perché solo qui potevano essere quello che erano, e non c'è niente di meglio per una città che un mucchio di omosessuali incazzati”). Contro il mercato immobiliare dopato e tarato solo sui miliardari, che l'ha costretta a comprare un appartamento che non può permettersi ma grande abbastanza per i suoi diecimila libri, unici ospiti benvenuti. Contro l'invasione dei turisti ebeti ormai purtroppo unica fonte di sostentamento della città e quindi indispensabili ma che bloccano tutti i marciapiedi e osano chiederle informazioni (“Fingete che sia una città abitata anche da altre persone, camminate, toglietevi di mezzo!”). Contro i nuovi collezionisti ciechi, ovvero tutti noi con gli occhi incollati sullo schermo del telefono anche mentre attraversiamo la strada o siamo a letto con qualcuno (Fran non possiede ovviamente Iphone o computer o social, non sa nemmeno battere a macchina. Del resto è l'unica fortunata a emettere fattura per chiacchierare). Contro la demonizzazione delle sigarette e l'esaltazione della marijuana, l'esatto contrario di cinquant'anni fa (“Sai come si chiama quando un gruppo di artisti sta al bar a bere e a fumare? Storia dell'arte”). Contro il racket dei mercanti d'arte (“Nessuno applaude quando il capolavoro appare all'asta, tutti applaudono la quotazione”). E soprattutto contro la morte degli standard e della critica: se in Public Speaking sosteneva che l'AIDS avesse distrutto la cultura uccidendo non solo grandi artisti ma anche il pubblico più sofisticato e severo, qui incolpa tutti noi che condividiamo e giudichiamo qualunque cosa unicamente in termini assoluti (“O ti minacciano di morte perché non gli piace il tuo taglio di capelli, o ti osannano”) cancellando per sempre gerarchie e giudizi sensati. A parte i suoi, naturalmente.

Nessuno come lei

A un certo punto Fran si chiede se potrà mai esserci un'altra come lei in futuro, cioè un arbitro, un censore, un cane da guardia della cultura. Qualcuno che non abbia interessi di parte, brand da vendere, opere da monetizzare, politiche da difendere. Qualcuno che si becchi tutte le critiche di snobismo e indisponenza pur non avendo alcun potere reale sui gusti e le vite degli altri. La risposta è naturalmente negativa, ma non si tratta solo di malumore terminale. Perché Pretend It's a City non è solo il ritratto di una irresistibile rompicoglioni troppo intelligente per questo secolo, è soprattutto un catalogo meraviglioso di cose perdute o che stiamo perdendo. Quelle che durante le riprese Lebowitz e Scorsese non potevano prevedere: le strade affollate, le metropolitane asfissianti, i cinema e i teatri e i ristoranti e i musei. E quelle che ci sono lentamente sfuggite di mano negli anni, e che solo ora ci stiamo accorgendo di quanto fossero preziose: la libertà sfacciata di pensiero e di parola, il coraggio dell'impudenza contro ogni buona creanza intellettuale, e soprattutto il diritto al divertimento. “L'unica buona ragione per fare una cosa è perché è divertente, non perché è importante”. Un'anatema nell'era in cui ogni posizione deve essere empowering e inclusiva e inoffensiva per decreto. Dio o Scorsese (che poi è lo stesso) ci conservi ancora a lungo Fran Lebowitz: in un mondo di collezionisti ciechi ci serve una guida a cui non sfugga mai niente.

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