Il futuro è finito? Storia di un’idea che ha cambiato il mondo

C'è stato un tempo in cui il futuro era una promessa, una direzione, un progetto. Non una semplice estensione del presente, ma qualcosa che doveva essere diverso, migliore. Un tempo in cui l'umanità guardava avanti con fiducia, convinta che ogni invenzione avrebbe portato con sé una nuova liberazione, una conquista di luce contro l'oscurità dell'ignoranza e della miseria. Era l'epoca in cui il progresso aveva il volto dell'ottimismo e la scienza sembrava possedere le chiavi del destino umano. Quel tempo era, per esempio, la Parigi del 1900. Non un anno qualunque: in città si inaugurava la grande Esposizione Universale e con essa un nuovo secolo. Parigi si era trasformata in un gigantesco palcoscenico. Tra le innovazioni più sorprendenti figuravano l’elettricità e il cinematografo dei fratelli Lumière; tra le attrazioni, un tapis roulant di tre chilometri e mezzo, un circuito sopraelevato pensato per mostrare le meraviglie della tecnica moderna. Lo chiamavano la Rue de l’Avenir, la via dell’avvenire, un percorso reale e simbolico che invitava i visitatori a immaginare la vita futura: case automatizzate, veicoli volanti, città ordinate e luminose. Il futuro, in quell’istante, era visibile, tangibile. Era il volto luminoso della modernità. Un idea di futuro che si realizza nel Novecento In quella fase storica il futuro era anche un sogno politico – il sol dell’avvenire socialista – la promessa di un riscatto collettivo, con una direzione, un colore, perfino un suono: quello delle fabbriche, delle rivoluzioni, delle marce verso il domani. È un’idea di futuro che si realizza e al tempo stesso si infrange nel Novecento, nel secolo breve – così lo ha chiamato Eric Hobsbawm – dalla Prima guerra mondiale al crollo del Muro di Berlino. Un secolo che aveva creduto di poter dominare il tempo, e invece ne è stato travolto. Il Novecento, con le sue rivoluzioni, le sue tragedie, due guerre mondiali, i regimi totalitari, la bomba atomica, la Shoah, la guerra fredda. Nel 1989 qualcuno ha annunciato la fine della storia. Il mondo, ci è stato detto, aveva trovato il suo equilibrio: democrazia, mercato, globalizzazione. Ma presto ci si è accorti che quella non era la fine della storia: era la fine del futuro come orizzonte. Nel nostro tempo, non è più facile immaginare il futuro con lo stesso ottimismo di un secolo e mezzo fa. Non perché il domani non arrivi – continua ad arrivare, regolarmente, ogni giorno – ma perché, in questa epoca difficile e confusa, si avverte la sensazione che il futuro, inteso come idea collettiva e come orizzonte di senso, abbia cessato di esistere. Effetto Calandrone: intervista inaspettata a una scrittrice gentile e sorprendente l’inferno è lastricato di aspettative deluse Dieci anni fa, Yuval Noah Harari in Homo Deus scriveva che all’alba del Terzo millennio l’umanità si era risvegliata con la stupefacente constatazione di poter tenere sotto controllo carestie, pestilenze e guerre. Era il 2015, un’era geologica fa. Vista oggi, quella constatazione risulta sconfessata dai fatti: le pandemie, le guerre in corso, la crisi climatica. Ma del resto, si potrebbe dire riprendendo un antico adagio, l’inferno è lastricato di aspettative deluse, pronostici errati, futuri non realizzati. Visto da qui, oggi, dalla prospettiva occidentale tardo-capitalista, il futuro è una parola che appare usurata, dal profilo incerto, talvolta quasi minaccioso. Lo constatava già nel 2014 Mark Fisher in Ghosts of My Life, fantasmi della mia vita. Dagli anni Settanta in poi, scriveva, la modernità ha perso la propria freccia del tempo. La promessa di un mondo nuovo – tecnologico, politico, artistico – si è dissolta in un presente senza scarto, dove tutto è remix, revival, retro. Le nostre culture, dice Fisher, non producono più il nuovo, ma riciclano, ripetono, campionano, prigioniere di una “dyschronia”, un disordine del tempo in cui il futuro non arriva e il passato non passa. Il suo libro si apre con un'immagine che sembra uscita da un sogno sospeso nel tempo: un vecchio caffè di periferia, un orologio fermo, i protagonisti di una serie televisiva britannica degli anni Ottanta intrappolati in uno spazio dove c'è ancora vita, ma il tempo si è fermato. Da questa condizione nasce una sensazione diffusa di smarrimento, come se ci si muovesse in un paesaggio familiare ma ormai senza direzione. Il cinema e la letteratura hanno restituito più volte questa vertigine del tempo sospeso: mondi dove il progresso non avanza più, e il domani sembra dissolversi in una foschia di déjà vu. E proprio questa sensazione di spaesamento trova una delle sue immagini più intense nel cinema italiano del Novecento. C’è una scena di Amarcord di Federico Fellini che sembra raccontare perfettamente questa condizione. La città è immersa in una nebbia bianca e densa: un vecchio contadino avanza a tentoni, cercando un punto di riferimento, incapace di capire dove si trovi. «Mi sembra di non stare in nessun posto», dice, «mo’ se la morte è così non è un bel lavoro…». Quella nebbia non è soltanto un fenomeno atmosferico: è un modo di guardare il mondo quando i confini svaniscono e ogni cosa sembra ugualmente vicina e lontana. È anche l’immagine del nostro tempo, in cui si vive immersi in un’incertezza che offusca l’orizzonte del domani. Quando è cominciato tutto questo? Quando la storia è rimasta orfana di un futuro? La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione Il futuro è diventato un luogo diverso dal presente Il futuro è una costruzione culturale, è quasi banale dirlo. Nelle società tradizionali il tempo era ciclico: il passato era la legge, il presente era l’adattamento, il futuro era il ritorno. Con la modernità – il Rinascimento, la rivoluzione scientifica, il pensiero illuminista, la rivoluzione industriale – il futuro è diventato un luogo diverso dal presente, migliorabile, raggiungibile. Ma questa idea nasce in Europa: è parte dell’ethos eurocentrico. L’Occidente si è pensato (e forse si pensa ancora) come l’avanguardia dell’umanità. Se vogliamo darle una cronologia, potremmo situarla dalla conquista dell’America alla Prima guerra mondiale: il momento in cui una parte del mondo, l’Europa occidentale, ha conquistato l’intero pianeta trasformandolo in maniera irreversibile. Come ha scritto Paolo Viola, il 1492 potrebbe essere letto come la data di inizio dell’aggressività europea, quando l’uomo bianco si è sentito forte, indistruttibile, certo di essere superiore agli altri, autorizzato a conquistare e “civilizzare” il mondo. È come se il resto del pianeta – l’Africa, l’Asia colonizzata, le Americhe depredate – non potesse avere un futuro proprio, ma solo essere trascinato nel nostro. È una delle grandi ambiguità della modernità: il futuro come promessa universale, che però nasconde la violenza del progresso imposto. Prima che il futuro diventasse un orizzonte politico, un progetto da pianificare, era innanzitutto un mistero da decifrare. L’uomo guardava il cielo e la natura come si guarda uno specchio, cercando i riflessi del proprio destino. Gli oracoli e le profezie avevano un ruolo centrale: nel mondo greco antico il futuro era conosciuto solo dagli dèi e frainteso dagli uomini. Quando Creso consulta l’oracolo prima della guerra contro Ciro – così racconta Erodoto – la profezia gli dice: «Se passerai il fiume, distruggerai un grande impero». Lo fa – e distrugge il suo. Elsa Morante, la fantasia di essere un ragazzo Il futuro come intrattenimento e paura L’astrologia, per secoli, è stata una vera e propria scienza del potere: una cosmologia in cui il moto degli astri e le sorti umane si rispecchiavano. Si dice per esempio che Caterina de’ Medici non prendesse alcuna decisione politica senza consultare il suo astrologo, Nostradamus, che nel 1555 pubblica le Centurie, una lunga serie di quartine profetiche: una delle prime forme moderne di futuro sensazionalista, vendibile, riproducibile. Il futuro come intrattenimento e paura, anziché conoscenza. Poi, quando il cielo è diventato dominio dei telescopi e della matematica, il futuro è sceso sulla terra, non più scritto solo nelle orbite celesti ma nei corpi degli uomini, nelle linee della mano, nei tratti del volto, nelle pieghe della pelle diventate mappe del futuro. Con la modernità, la nostalgia della previsione non è scomparsa. La ritroviamo oggi nelle nuove forme di divinazione algoritmica: modelli predittivi e big data che promettono di sapere in anticipo chi siamo e che cosa faremo. È la stessa fame di destino, travestita da statistica. E poi, da sempre, come un fiume carsico che riemerge nei momenti di crisi, c’è lo spettro della fine del mondo. L’Apocalisse è stata datata molte volte nella storia, da profeti, religiosi, filosofi, scienziati e millenaristi. Ogni volta che una civiltà si è sentita fragile, minacciata o colpevole, ha proiettato la fine in un giorno preciso. La fine del mondo è sempre stata una data nel calendario di qualcuno: l’anno 1000, il 1666, il 2000. Quando il futuro ci sfugge, lo reinventiamo al passato: profezie postume, racconti retrospettivi per addomesticare il presente. Zavattini, Pasolini e il ‘68 L’apocalisse si trasmette al cinema Oggi la guerra è tornata, le epidemie sono tornate, la paura è tornata, pur in un’epoca di benessere e sopravvivenza senza precedenti. Il futuro appare quindi dominato da narrazioni di collasso – climatico, tecnologico, sociale – ma con una strana piega: la catastrofe non è più temuta, ma osservata, raccontata, perfino attesa. È diventata un genere. Un’immagine nitida di questa condizione ci arriva dal film Don’t Look Up, di Adam McKay. Due scienziati, interpretati da Jennifer Lawrence e, Leonardo di Caprio, scoprono che una cometa colpirà la Terra. Tentano di avvertire l’umanità, ma in televisione la conduttrice sorride: «Cerchiamo di mantenere leggere le cattive notizie». Anche la presidente degli Stati Uniti, interpretata da Meryl Streep, liquida l’annuncio con tono di fastidio ironico: «Quanti vertici “il mondo sta finendo” abbiamo avuto in questi due anni?». È una scena paradossale ma reale: la catastrofe è diventata un genere dell’intrattenimento. L’apocalisse non è più un evento rivelatore, ma un format da consumare al cinema, in streaming, con hashtag dedicati. Già negli anni Sessanta, Umberto Eco aveva distinto gli apocalittici dagli integrati. Ma oggi quella distinzione non regge più. Viviamo in una parodia dell’apocalisse: l’attesa della catastrofe è diventata un modo per anestetizzarsi. Ogni allarme climatico, ogni crisi economica, ogni guerra, si consuma e si dimentica nel rullo continuo dei feed. Le apocalissi mancate ci hanno assuefatto alla loro ripetizione. Siamo apocalittici integrati, profeti della fine saldamente connessi in rete. Ogni giorno assistiamo all’annuncio di un nuovo futuro: dell’intelligenza artificiale, dell’energia, dell’amore, persino della morte. Ma dietro quella parola non c’è più attesa, solo aggiornamento. Il filosofo tedesco Reinhart Koselleck ha descritto il nostro tempo come un equilibrio instabile fra spazio d'esperienza e orizzonte d'attesa. In effetti, siamo in una sorta di postmodernità disillusa, dove l'unico orizzonte è quello della gestione dell'esistente. Il futuro non promette più salvezza, non è più un luogo di immaginazione politica, ma un'estensione del presente. Gli occhi di Diane Keaton: schermo dopo schermo, proiezione dopo proiezione La storia viene confusa con la memoria Si è avverata la profezia di Walter Benjamin? Il suo angelo della storia guarda il passato come un cumulo di rovine che cresce fino al cielo. Per Benjamin, il progresso è un vento che soffia dal paradiso ma trascina tutto nel disastro. Fisher riprende questo sguardo e lo porta nel presente digitale: non ci muoviamo più tra le rovine, ci abitiamo dentro. Come ha scritto Francesco Benigno, nel presente permanente in cui viviamo, segnato da emergenze continue e da un flusso informativo globale, se è difficile immaginare il futuro, anche lo sguardo all’indietro è privo di profondità. La storia non offre più una direzione ma viene confusa con la memoria: un vero e proprio culto, alimentato dai social, fatto di musei immersivi, anniversari, commemorazioni, nostalgici richiami identitari. Il passato non insegna più, al limite deve essere soltanto risarcito come in un eterno ritorno del trauma dove i confini tra vittima e carnefice si fanno sempre più incerti. Eppure, in questo smarrimento, cresce una grande richiesta di storia. Eventi pubblici, festival, podcast. E anche gli scaffali delle librerie, dove un tempo prevaleva la saggistica storica, oggi sono colmi di romanzi storici, tornati in grande voga. Erano appenninici: quando la provincia era centro esistenziale Si parla di storytelling, ma si tratta solo di intrattenimento? Non è forse anche il segno di un bisogno più profondo, di strumenti per decifrare il presente, di una grammatica del tempo, in un’epoca segnata da incertezze e da notizie manipolate? Settant'anni fa, dal buio di un campo di prigionia nazista, il grande storico francese Fernand Braudel, di cui ricorre quest'anno il quarantennale della scomparsa, invitava i suoi compagni di sventura a superare gli avvenimenti, a non dare troppa importanza a vittorie o sconfitte che hanno la durata di un istante per coloro che si credono in quel momento i padroni del mondo. Diffidiamo, scriveva Braudel, di questa storia che brucia ancora, così come l'hanno sentita, descritta, vissuta i contemporanei al loro ritmo di vita. Essa ha la dimensione delle loro collere, dei loro sogni, delle loro illusioni. Era la sua personalissima forma di resistenza, e forse può esserlo anche oggi, non per rimanere aggrappati al mondo che abbiamo perduto, ma per guardare in profondità il passato, con uno sguardo critico, affinando le armi della ragione, così fuori moda in questi tempi così emotivi. Per esempio, con gli strumenti della storia globale, che ci invita a rivedere quella visione del mondo così eurocentrica che ha condizionato e condiziona ancora il nostro sguardo. Dall'altra parte del mondo, visto da qui, il futuro è tutt'altro che sparito. Lo sguardo riflessivo e lento della storia, oggi più che mai controcorrente e inattuale, può forse aiutarci a ritrovare nel passato – nei futuri che il passato aveva immaginato – ciò che di umano ci resta, indicandoci così una strada da percorrere. Ogni epoca ha costruito il proprio orizzonte del possibile e dentro di esso ha inscritto angosce, desideri, attese, errori. Ma proprio in questa trama di sogni interrotti e di speranze non compiute, la storia ci offre qualcosa di più di un semplice ricordo: ci offre un metodo, uno sguardo. Ci insegna che ogni presente è transitorio, che ogni crisi è un passaggio, e che nulla di umano si perde del tutto se sappiamo guardarlo con attenzione. Così la storia non è solo un deposito di rovine, ma una bussola: ci mostra da dove veniamo, ma soprattutto ci ricorda che il futuro – anche quando sembra finito – può ancora essere pensato. [Missing Caption][Missing Credit]