I “verdi”, per quanto ancora in statu nascenti e quindi poco definiti e caratterizzati, nei vari paesi hanno assunto sinora il volto di un movimento essenzialmente utopistico. Intendo dire: un movimento (di pensiero, culturale, politico ecc.) che aspira a qualcosa che non si ha o non si è, ma si vorrebbe avere o diventare, immaginando un possibile mondo migliore da realizzare nel futuro. Un mondo pacificato, liberato dall’aggressività delle armi e dello sfruttamento distruttivo dell’ambiente, il regno della cooperazione al posto della concorrenza, della solidarietà al posto della competizione, dell’equilibrio (tendenzialmente stabile) economico ed ecologico al posto dell’espansione e della crescita, della salvaguardia e della valorizzazione delle diversità invece che dell’omologazione e della standardizzazione di tutto e tutti. Dimensioni conviviali e non industriali – anche nello sviluppo tecnologico, nella produzione e nei consumi, nella stessa democrazia e convivenza organizzata della società. Realizzazione di un nuovo rapporto con la natura e l’ambiente che almeno aiuti l’umanità a non procedere a ulteriori e del tutto irreparabili mutilazioni.

La volontà di trasformazione

Sotto questo profilo di progettualità utopistica, i verdi sembrano parenti abbastanza stretti di altri movimenti o di altre correnti utopistiche: dagli scenari socio-religiosi che immaginano un nuovo mondo sino alle utopie di matrice socialista e comunista. In tutti questi movimenti domina una volontà di cambiamento e trasformazione profonda, spesso con un richiamo alle origini (al cristianesimo primitivo anteriore all’istituzionalizzazione costantiniana, al comunismo e collettivismo primitivo anteriore all’accumulazione originaria, all’equilibrio ecologico anteriore ai grandi interventi umani su scala industriale) e con l’indicazione di un orizzonte di speranza e di obiettivi da raggiungere. Questi movimenti, dunque, esprimono una critica – in genere assai radicale – allo stato presente delle cose, talvolta con tinte anche apocalittiche (l’immiserimento progressivo del proletariato, l’inesorabile autodistruzione del genere umano ecc.), e tendono a individuare un possibile futuro più o meno “paradisiaco” nel tempo a venire, purché si segua la strada della progettualità utopistica e i programmi concreti che ne sostanziano l’avvento graduale o repentino. Una riprova meno ideologica e più materiale del carattere fortemente ideale e utopistico del movimento verde lo offre la geografia sociale e territoriale dei suoi insediamenti e dei suoi consensi elettorali. Aderiscono a idee verdi e praticano magari anche qualche impegno concreto in tal senso soprattutto persone che vivono nelle città, che hanno un livello abbastanza elevato di istruzione e cultura, che spesso appartengono a ceti sociali del settore terziario e che comunque vivono prevalentemente nel nord del mondo (industrializzato, “progredito”, con alti livelli di consumi), che soffrono delle numerose forme di amputazione del loro rapporto con la natura e che al di là dei loro interessi economici più immediati assumono un ethos e una coscienza che qualcuno chiama post-materiali (e post-industriali) e che comunque privilegiano le ragioni del lungo periodo rispetto a quelle – certamente più stringenti e rapaci, ma anche assai miopi – dell’immediato presente e futuro.

In altre parole: si aderisce al movimento verde più facilmente abitando nella metropoli e sentendo la mancanza di ogni diretto contatto con la natura (il latte arriva nel cartoccio e gli animali si vedono solo alla tv e allo zoo) che non lavorando la terra o vivendo nelle aree ancora meno industrializzate.

I rischi

Questa situazione, di per sé non nuova, contribuisce tuttavia a esporre il movimento verde ad alcuni rischi. Ne vorrei individuare soprattutto tre: 1. di rimanere una corrente minoritaria, tra l’illuminista e il predicatorio (come talvolta accade al Partito radicale), e di non riuscire quindi a coinvolgere strati più larghi della società, soprattutto tra i ceti popolari; 2. di esercitare oggettivamente una concorrenza soprattutto alla sinistra, di cui soggettivamente molti verdi non riescono a non sentirsi parte integrante, anche se magari sofferente (soprattutto in Italia e in Olanda, un po’ meno in Germania federale), e di non superarne quindi il perimetro culturale, sociale e ideale, rimanendone un po’ ostaggi e un po’ mosche cocchiere; 3. di perdersi nell’astrattezza di chi sogna o progetta il mondo migliore, finendo essenzialmente nell’“ideologia”.

Al contrario delle caratteristiche finora assunte dal movimento verde in Europa e negli Stati Uniti, esistono invece paradossalmente ampie aree geografiche e sociali, nelle quali sono (ancora) diffuse pratiche, modi di vita e idee di valori che potremmo definire “verdi-ruspanti”, o, forse meglio, naturaliter (che poi vuol dire sempre: “culturalmente”!) verdi. Mi riferisco per esempio a regioni quali quelle dell’arco alpino e del Meridione, dove la diffusione dell’industria dello sfruttamento turistico di massa e di altre forme di modernizzazione imposta non ha ancora interamente sfondato e non è riuscita ancora a cancellare e snaturare integralmente le civiltà preesistenti. Basti pensare – seppure sommariamente e senza indulgere a romanticismi o nostalgie – quante manifestazioni di vita personale e comunitaria conservano vitali elementi di un rapporto con la natura e tra la gente che si potrebbe definire “spontaneamente ecologico”: dall’economia di sussistenza alla coltivazione diretta, dall’agricoltura differenziata (non monoculture) a tante forme ancora esistenti di artigianato, dalla sopravvivenza di forme comunitarie non-statuali e non-istituzionali alla solidarietà vicinale e al mutuo aiuto, dall’ospitalità alla festa, dalle dimensioni stesse della vita quotidiana (ridotta densità della popolazione, della velocità, dell’accumulazione, delle differenze sociali…) al modo di sentire e praticare tradizioni, costumi, idiomi, modi di dire… Insomma: senza assolutamente voler disconoscere i molti elementi di alterazione violenta espansionista che ormai anche nei tessuti sociali più riposti e meno intaccati dalla mercificazione si trovano in abbondanza, e senza nascondersi i molti limiti e le molte contraddizioni insite nelle forme sociali meno moderne, non si può non notare che parecchie di quelle cose che altrove i verdi (o anche altri) faticano a “riscoprire”, in certe aree geografiche o sociali non sono ancora del tutto estirpate e omologate. E una diffusa diffidenza contro il “progresso”, che in quelle zone si riscontra, può essere letta anche come difesa contro una modernizzazione alienante imposta dall’alto e dall’esterno; e come affermazione in positivo di peculiarità e di identità da salvaguardare e sviluppare.

Fidarsi del futuro

In genere, in simili regioni d’Europa le forze politiche dominanti sono di orientamento “conservatore”, come si usa chiamare la destra moderata, non fascista. E gli strati sociali in cui tali comportamenti e valori sono radicati, tendono a votare in politica per le “forze di conservazione”. Non c’è troppo da meravigliarsene e non si potrebbe neanche dare torto a chi opta per la conservazione di qualcosa di prezioso, di valido, di radicato, di peculiare, di equilibrato e di umano. Cosa che la sinistra in genere mostra di non avere capito, tanto da non essere mai riuscita a penetrare profondamente e tanto meno a esercitare alcuna egemonia nelle aree di cui parliamo. Anzi, la caratterizzazione “anticonservatrice” della sinistra ha favorito i trionfi della destra, consentendole di compiere una colossale e riuscita mistificazione: presentarsi – in genere con l’aiuto dei funzionari della religione – come garante fidata della tradizione, dell’identità peculiare, dei valori tramandati, e gestire intanto senza concorrenza una vasta trasformazione distruttrice che ha sfigurato in maniera selvaggia l’ambiente e i tessuti sociali, rovinando, commercializzando e volgendo in folclore (importante instrumentum regni) tutto ciò che asseriva di voler conservare. Bisognerebbe finalmente contestare alla destra il diritto di fregiarsi delle insegne della “conservazione”: in realtà “conserva” unicamente – e neanche sempre! – i rapporti di potere, quando si minacci un cambiamento in direzione della giustizia e dell’uguaglianza. (Per rendersi conto di quanto poco “conservatrice” sia in realtà la destra, basta osservare le vicende di forsennate imprese edili, industriali, militari, turistiche e via dicendo nei regni di questa destra pseudo-conservatrice: dalla Baviera al Veneto, dalla Sicilia al Molise). Che la destra sia realmente “conservatrice” è dunque, in gran parte, una bugia ereditaria che ormai ci si trascina dietro senza verifica critica, e che comunque le ha permesso di farsi forte di una reale esigenza di molte persone e gruppi sociali. Sarebbe ora di “andare a vedere”. Come bisognerebbe “andare a vedere” se la denigrazione progressista della “conservazione” non si basi anch’essa su una bugia ereditaria: che cioè in fin dei conti le cose (la vita, la società ecc.) possono solo migliorare.

Ma è poi vero che la gente è convinta che col passare del tempo e col progresso della scienza, della tecnica, dell’industria ecc., la vita diventi via via più vivibile, più bella, più giusta, più gratificante? Credo che solo degli incalliti ideologi possano rispondere di sì senza esitazione. Succede così che, magari sul fondamento di alcune bugie ereditarie e di assiomi ideologici, la sinistra si sia lasciata storicamente collocare in posizione di svantaggio in una serie di binomi dialettici: occupando lo spazio dell’utopia, lasciava alla destra quello dell’esperienza; imperniando la propria azione in vista del futuro, il passato rimaneva di pertinenza alla destra; alle speranze un po’ visionarie della sinistra, la destra poteva opporre il buon senso, e rivendicare la profondità delle radici contro le fioriture un po’ effimere della sinistra. La difficoltà della sinistra di diventare maggioranza ha anche a che fare con la difficoltà della gente di fidarsi di un futuro non provato alla luce dell’esperienza. Ora mi pare che per il movimento verde possa aprirsi uno spazio di coinvolgimento.

Un motivo in più per chiedere che i verdi non si presentino come semplice appendice o riedizione della sinistra, ma facciano il possibile per sviluppare piena autonomia e per recuperare un saldo rapporto con elementi della tradizione e della “conservazione”. Il discorso verde non può parlare solo di futuro e non di passato, di utopia e non di esperienza, di visione e non di buonsenso… In questa luce credo che il vero banco di prova dei movimenti verdi si trovi non nelle metropoli e nei ceti post-industriali, ma nelle regioni e negli strati sociali che non hanno ancora subito per intero la lobotomia industrialista e modernizzatrice. Un banco di prova assai difficile, ma inevitabile, se si vuole arrivare in profondità.

Questo testo, scritto da Alexander Langer, è apparso per la prima volta nell’ottobre 1985 con il titolo I verdi e la sinistra, nella rivista Alfabeta.

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