Un caricaturista inglese sosteneva che tra i più grandi terrori dell’umanità ci sia la gente che racconta i propri sogni agli scalognati con i quali sta facendo colazione. Può darsi che ciò sia vero nella maggior parte dei casi, ma ci sono ovviamente eccezioni che valgono più di qualche colazione guastata. E Ginevra Bompiani, nel suo nuovo libro edito da Feltrinelli, La penultima illusione, è annoverabile tra quelle eccezioni.

Diario privato

L’autrice ci affida un diario privato degli ultimi due anni e al contempo le sue memorie, ci racconta alcuni dei suoi sogni e ci racconta la sua vita da quando era una bambina fino a quest’ultimo anno trascorso, al pari di chiunque, in una perenne quarantena.

Parlare d’infanzia vuole dire innanzitutto, se allora si è stati fortunati, parlare di convalescenze: scarlattine, pleuriti e altre beatitudini. Il tempo coricati a letto. Le letture svaganti. La spossatezza, il soffuso delirio di certi piccoli morbi.

Ginevra fu mandata a studiare in un collegio svizzero: ricorda tuttora la camerata annegata dai pianti degli altri bambini, quasi che quelli fossero un rito che annunciava la notte imminente.

Tornata a Milano a dodici anni, fece il suo ingresso in società in una scuola di ballo. Per quanto fosse diligente non imparò mai ad abbandonarsi al ritmo, ma in quei giorni divenne amica di Umberto Eco e Fleur Jaeggy. E anni dopo, a Lerici, conobbe Paolo Volponi e Pier Paolo Pasolini, sempre ballando. Siamo sicuri che i suoi piedi non sapessero come comportarsi?

E quando anche l’adolescenza è trascorsa, i suoi studi proseguono più per qualità d’immaginazione che grazie a una memoria su cui l’autrice dice di non avere mai potuto contare granché. Pochi anni dopo, nel periodo in cui cominciò a leggere Freud e i testi di grafologia, diventò un’esperta grafologa. Tanto che il cugino Ottiero Ottieri per scegliere i dirigenti per l’Olivetti le metteva in mano le domande di assunzione perché lei desumesse dalla grafia dei candidati quali fossero i più adatti per l’azienda.

Non è mai stata una donna paziente. A ventiquattro anni, a una festa romana data per lei e il suo nuovo fidanzato, conobbe Giorgio Agamben, no, non era lui il suo nuovo fidanzato per cui era stata organizzata quella festa: prima della fine della serata le cose però erano cambiate, pochi giorni dopo lei e lui erano insieme a Parigi e a cinque anni da quella strana serata si sposarono a Londra.

Tutte le volte che si trucca, da ragazza come anche adesso, si passa appena sulle palpebre un’incerta matita verde: le sue amiche di un tempo chiamavano quella nuance pasticciata «verdino sugli occhi». Diamo per scontato che avesse le palpebre leggermente verdi in occasione di quella festa romana così come anche a Londra, cinque anni dopo.

L’editoria è per Ginevra Bompiani una vicenda amorosa, comunitaria. Nei vent’anni in cui ha insegnato all’università, «dove la collaborazione con i colleghi sarebbe prevista», dice che non le è quasi mai capitato di praticarla. Invece l’editoria, «dove è contemplata piuttosto la concorrenza, è stata una delle più belle esperienze di amicizia collaborativa».

Ginevra Bompiani vive tra Roma e la casa in campagna in cui ha trascorso i due mesi di quarantena del primo lockdown. Con lei c’è la ragazza somala che le è stata affidata perché diventasse la sua tutrice, N. Siedono accanto la mattina mentre fanno colazione, parlano la sera prima di andare a dormire, studiano insieme, e non mancano i dissidi. E alcuni di questi scaturiscono dalla disparità culturale, e altri da quella anagrafica.

Bompiani ricorda il gusto perverso per la letteratura inglese del Sette-Ottocento che aveva da ragazza, e non per una casualità il primo libro pubblicato da nottetempo (la casa editrice che ideerà nel 2002 insieme a Roberta Einaudi) sarà Il principe Otto di Robert Louis Stevenson. E ricorda gli amori mancati per fedeltà e quando, insieme a Carla Lonzi, Carla Accardi ed Elvira Banotti, fondò nel 1970 la prima associazione femminista italiana: si chiamava Rivolta Femminile.

Raccontarsi

Eppure è così difficile scrivere di sé. Valutare ciò che si è fatto nel corso di una vita. Roger Martin du Gard ricordò quella volta che Marcel Proust, desiderando che qualcuno recensisse il suo grande romanzo e pensando che nessuno avrebbe potuto farlo meglio di lui, decise di scrivere l’articolo di suo pugno. Chiese poi a un giovane intellettuale di firmarlo e di consegnarlo alla rivista su cui desiderava apparisse. Qualche giorno dopo il direttore del periodico convocò il giovane e gli disse che non avrebbe potuto pubblicare il suo articolo: «Proust non mi perdonerebbe mai se pubblicassi una critica tanto fredda e malevola sul suo lavoro».

Neanche il più avvertito e coscienzioso tra gli scrittori insomma, si accorge di quanto risulti insoddisfatto del proprio lavoro, quando gli capita di parlarne. E neppure il più lucido degli esseri umani sarà mai sufficientemente lontano dalla propria pelle e dal proprio cuore per raccontarsi in un modo affidabile.

Nessuno è attendibile quando parla di sé. Mi viene in mente, in merito a ciò, questa performance dell’artista francese Sophie Calle: negli stessi giorni in cui assunse anonimamente un investigatore privato a cui chiese una relazione dettagliata dei suoi movimenti e dei suoi incontri, con relative fotografie, lei teneva un diario particolarmente dettagliato di quel che faceva.

I due resoconti differivano enormemente, non sembravano neanche descrivere le stesse giornate della stessa persona. È forse una buona dimostrazione della nostra incapacità di dire persino cosa abbiamo fatto oggi, impossibilitati a particolareggiare il racconto della nostra giornata senza dare opinioni, giudizi, senza scegliere chissà quanto consapevolmente cosa omettere e cosa inventare.

Eppure La penultima illusione è quanto di più vicino ci sia a una macchina della verità, e a questo poligrafo Ginevra Bompiani si è sottoposta un giorno in fila all’altro, imprudentemente di sua spontanea volontà, per rimettere in scena gli anni passati e registrare le espressioni di una vita.

E perché niente si mimetizzi con il resto, tutto ciò che merita va appuntato. Come farsi un fiocco al fazzoletto, per non dimenticarsene. E se scrivere romanzi, come sosteneva la svizzero Max Frish, dà l’opportunità di «provare storie come abiti», trascrivere i propri pensieri, annotarsi le suggestioni di una giornata, dà la possibilità di riempire l’armadio con gli accessori, le cinture, le scarpe, i foulard e i gioielli più memorabili.

Movimento costante

Abitualmente si dice che si prendono appunti per fermare un pensiero su carta, ma questa mi pare una formula inesatta: la carta conferisce movimento al pensiero, non lo fossilizza, lo fa agire insieme agli altri che lo seguono o lo precedono, finché non verrà la sua ora e sarà utile al suo autore. Per Ginevra Bompiani, soprattutto, che ritiene il sentimento una forma di pensiero. Sono faville e immaginazioni, ricordi e altre passioni.

Nei Taccuini di uno scrittore Maugham scrive: «La perfezione non è altro che un completo adattamento all’ambiente; ma l’ambiente è in continuo mutamento, cosicché la perfezione può essere soltanto qualcosa di provvisorio». A Parigi come a Londra, a Napoli come anche a Siena, a Buthan o Calcutta o Mogadiscio, sempre sobria, a eccezione di quando è stata implicata in vicende d’amore, Ginevra Bompiani si è adattata agli ambienti in costante cambiamento in cui ha vissuto.

Si diceva all’inizio dei sogni. A dare una prova del talento onirico degli scrittori fu S. T. Coleridge, che, almeno a volere dare credito a una sua poesia, dopo aver sognato la notte di raccoglierla in paradiso, un bel giorno al risveglio, si ritrovò nel proprio letto una rosa meravigliosa.

Ora, con buona pace di quel caricaturista inglese, c’è qualcuno che quella mattina non avrebbe voluto sedere al tavolo della colazione accanto a Coleridge, e porgergli un vaso per il suo fiore? E così anche in questo libro l’illusione, che non è pronunciata mai se non nel titolo, è un’espressione concreta di vita.


Ginevra Bompiani è autrice del libro La penultima illusione, edito da Feltrinelli

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