Costanza ha 7 anni e vive in una casa gialla che hanno costruito i suoi, in un paesino della mezza montagna veneta affacciato su una valle, una statale, una città con le sue fabbriche e i suoi uffici, poi l’autostrada, Mestre, il mondo.

Costanza ha 16 anni e non ce la fa più a stare rinchiusa nella valle. Ma ha un’amica, un’amica del cuore, Livia. Ed è l’Italia degli anni ’70, autostop, concerti, tende e risvegli in spiaggia.

Costanza ha 20 anni ed è scappata a Milano, ma senza Livia. Per qualche anno ancora lavorerà in giro, conoscerà gente e farà cose, mentre Livia è rimasta in valle, ha avuto un figlio, forse la aspetta.

Costanza è tornata, ha ritrovato Livia e c’è molto da raccontare, partendo dal blitz con cui la squadra Narcotici ha invaso la casa gialla e si è portato via Claudio.

«E adesso», dice Costanza, «devo spiegarti chi è Claudio».

Trappole scattate

Siamo a più di metà dello strepitoso romanzo di Ginevra Lamberti, Tutti dormono nella valle, e le trappole sono già scattate tutte. Un Veneto contadino aspro e primitivo che pare una Macondo con trenta gradi di temperatura media in meno, un’amicizia giovanile e femminile (e un’altra, con Mimì, e un’altra ancora, con Fiorella), una ribellione individuale nell’alveo della rivoluzione generazionale. E ancora non ci è scoppiata in faccia la storia d’amore – che scoppia in faccia, lo garantisco, e fa molto male.

E pensare che il libro si comincia a leggere per la lingua in cui è scritto, per una volta corretta, mutevole nei registri e nelle focalizzazioni, attraversata da brividi di ricercatezza e sempre addosso, appiccicata ai personaggi. E si continua a leggere per il montaggio, complesso, sincopato e quasi violento – la decisione di mettere il lettore all’inseguimento della trama, imporgli il dubbio, l’ipotesi, la verifica.

Quando si realizza che si sta leggendo un romanzone affollato di persone, luoghi (non solo Veneto, ma Roma e San Patrignano, mai identificata per nome), figli, nonni, suocere e amiche di famiglia, nonché droghe, amori, vecchiaie e morti – insomma, diciamolo, una saga familiare in piena regola – è tardi: dobbiamo restarcene fino in fondo a godere della prosa, a verificare il mosaico dei tempi narrativi disarticolati e ad ammettere che la materia di cui è fatta, per dire, La casa degli spiriti o L’amica geniale si presta tranquillamente a un trattamento sfacciatamente letterario – basta che le redini siano in mano a una scrittrice.

Una lingua controllata

Il risultato è che alla fine si è letto un romanzo complesso, scritto in una lingua sempre diversa e sempre controllata (qui, tra parentesi, un grido di dolore al pensiero di quello che ci tocca normalmente leggere nei romanzi letterari italiani) che non ha paura di chiedere al lettore impegno e acutezza, ma che poi gli restituisce anche tutti i guilty pleasures dell’epopea spalmata su più di mezzo secolo e quattro generazioni di persone.

Persone che, non essendo funzioni dell’intreccio come nella scrittura da serie tv, bensì personaggi dotati di vita interiore, producono naturalmente davanti ai nostri occhi il grande spettacolo di vicende personali che sembrano le nostre, ma hanno il pregio forse consolatorio di essere complete, dotate di arco narrativo, infine dunque intelleggibili – e, quindi, non come le nostre.

Sperimentazione letteraria? Romanzo psicologico?

Saga familiare? Affresco balzacchiano della società italiana?

Forse possiamo evitare di decidere e seguire Emanuele Trevi che ha detto, come giustamente ricordato in quarta di copertina: «Ginevra Lamberti è impegnata in questo strano genere letterario che è “scrivere bene”». Auspichiamo che continui.

© Riproduzione riservata