Negli ultimi anni quando si arriva alla fine di gennaio, editori e librerie propongono in vista del Giorno della Memoria molti libri sulla Shoah, ma tra i romanzi di finzione ambientati nei campi di concentramento di autori che non ne hanno fatta esperienza, non ne ho mai consigliato uno non avendo trovato niente di più significativo, sia a livello testimoniale che letterario di Se questo è un uomo di Primo Levi, del Diario di Anne Frank o anche di Maus di Art Spiegelmann.

Quest’anno, ho letto Il maestro invisibile di Wendy Holden (Piemme), una sorta di biografia romanzata sulla storia vera di Fredy Hirsch, un giovane educatore tedesco, profugo in Cecoslovacchia, deportato in Polonia e morto a soli 28 anni ad Auschwitz.

L’autrice, una storica che si è avvalsa di tutta la documentazione possibile e anche delle ultime testimonianze orali degli allievi di Hirsch che sono sopravvissuti, ha deciso di affidare il racconto a una prima persona singolare, in una forma di fiction autobiografica in cui il maestro parla di sé come in un diario, scomponendo i capitoli in anni e luoghi che non seguono un andamento diacronico lineare, (l’infanzia agiata ad Aquisgrana, la scoperta del suo carisma con i bambini, la fuga in Cecoslovacchia, la negazione tormentata della sua omosessualità e poi il ghetto di Terezín, il trasferimento ad Auschwitz-Birkenau, non vengono raccontati in sequenza ma in una sorta di mosaico), alternando abilmente gli elementi fattuali ma soprattutto emotivi della storia di Fredy.

La missione 

Nella presentazione del libro proposta dalla casa editrice si dice che si tratta della storia del «maestro che salvò migliaia di bambini». La verità è meno bella di questo suo riassunto. Hirsch non è riuscito davvero a salvare dalla morte tutti quei bambini purtroppo, ma riuscì lo stesso ad avere un impatto fortissimo sulle loro vite nei campi e a proteggerli, e per tutto il tempo in cui è riuscito a prendersi cura di loro, dalle malattie, dalla disperazione, dalla paura atroce, dalla crudeltà degli esseri umani, costruendo, con la sua scuola “inventata”, un muro tra i bambini e l’orrore puro a cui erano esposti, alleviando le loro sofferenze in ogni modo.

Hirsch trasformò la sua missione di salvezza dei bambini in un compito a cui si dedicò con una caparbietà e una devozione che ebbero effetti sorprendenti.

Nel ghetto di Terezín, in Cecoslovacchia, in cui erano stati rinchiusi migliaia di ebrei che via via venivano deportati nei campi di lavoro o di sterminio, riuscì a convincere gli ufficiali delle SS a dargli degli spazi da utilizzare per le centinaia di bambini internati. E piano piano trovò il modo di creare per loro spazi “sicuri” e puliti in cui ufficialmente teneva lezioni di tedesco, in realtà insegnava poesia, canto, disegno e ginnastica, arrivando persino a creare delle squadre di calcio e a convincere i nazisti di permettere ai bimbi qualche ora di libera uscita (alcuni piccoli non ricordavano l’erba, i fiori, gli insetti).

Fissato con l’igiene anche a costo di sembrare crudele (costringeva i piccoli a svegliarsi presto e lavarsi con l’acqua gelida ogni giorno e organizzava gare di uccisione pidocchi) ne salvò moltissimi dalla dissenteria, dalla scabbia e dal tifo portati dai parassiti che mietevano vittime quotidianamente, trovando sempre anche il modo di nutrirli al meglio.

Dopo la deportazione da Terezín al campo per famiglie di Birkenau nel 1943 la situazione in cui si trovò era ancora più terribile. Ad Auschwitz c’erano i forni, i bambini sapevano. E anche lì, riuscì a creare una “scuola” nel Blocco 31, in cui riuscì tenere in salvo centinaia di bambine e bambini di tutte le età, puntando sul potere trasformativo dell’insegnamento e dell’amore, sulla salvezza di avere “uno scopo” per cui svegliarsi la mattina, sulla potenza del corpo e della mente insieme (riusciva a far fare ai bambini delle sessioni di autoipnosi in cui li convinceva di avere la pancia piena prima di addormentarsi), mise in piedi cori e spettacoli teatrali a cui tutto il campo voleva assistere, Mengele e Eichmann inclusi.

Insegnare a resistere 

Insegnò ai ragazzini dei giochi di controllo e disciplina del corpo che servivano per immobilizzare tutti in caso di pericolo. Hirsch riuscì ad applicare davvero le trovate che nella finzione cinematografica de La vita è bella il padre-Benigni inventa a favore del figlio facendogli credere di essere parte di un grande gioco a premi.

Solo che nel film quello che accade è del tutto inverosimile, mentre nella realtà il maestro Fredy non mentendo mai, riuscì nel miracoloso intento di esonerare i suoi bambini dall’orrore puro e dare loro la possibilità di concentrarsi in un altrove pieno di poesia e immaginazione, in cui la speranza era sempre viva, perché la guerra prima o poi sarebbe finita.

La morte di Fredy, avvenuta in circostanze che rimangono misteriose, nella notte prima della camera a gas, lascia un’angoscia indicibile. Fu suicidio, dettato dalla disperazione per l’imminente sterminio dei suoi ragazzi o fu ucciso da chi temeva le conseguenze di un suo ultimo atto di resistenza contro il regime nazista?

Il maestro invisibile è un omaggio commovente a un maestro eroico e leggerlo oggi, di fronte agli orrori che ancora troppi bambini sono costretti a subire, ci porta a dare un valore ancora più forte alla memoria nel presente, come omaggio a tutti quelli di cui forse non conosciamo il nome ma stanno lottando strenuamente per insegnare ai più piccoli a resistere e a mantenere la speranza accesa di fronte a orrori indicibili.


Il maestro invisibile. La storia mai raccontata di Fredy Hirsch l'eroe che salvò migliaia di bambini (Piemme 2025, pp.368, euro 19,90) è un romanzo di  Wendy Holden

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