Quando Giacomo Mameli mi ha chiesto di ricordare la figura di Giuseppe Fiori, la reazione è stata pensare che altre e altri potevano farlo con molta più conoscenza e intensità. Lo dico perché la mia scoperta dell’uomo, dello scrittore, del politico, è passata soltanto attraverso la pagina.

I suoi libri. I servizi e le inchieste che ha curato per la Rai. E anche da un breve dialogo con sé stesso ritrovato in quella biblioteca sterminata che è divenuta la rete.

Ora, tutto questo conta. E conta perché le donne, gli uomini, che si conoscono di persona rivelano di sé più di quanto a volte non desiderino fare. Allo stesso tempo, è vero che a volte sono i libri a descrivere in profondità la natura di chi scrive. E al fondo, attraverso la scrittura vive.

Passione civile

Allora, forse la prima cosa da dire su Peppino Fiori è che nella sua scrittura c’è lo spessore dell’uomo di cultura, c’è la curiosità del giornalista, ma mai separati dalla passione civile verso i valori vissuti.

In quell’autointervista – sono poco più di tre minuti registrati verso la metà degli anni Ottanta – questo profilo lo si intuisce. Sono pennellate che descrivono l’uomo in una successione di note, come in uno spartito.

L’inizio è una dichiarazione di disistima garbata verso i giornali: immagino con qualche scala di gradimento. Subito dopo la passione per il cinema. E per Il cielo sopra Berlino: allegoria della città divisa dove solo il cielo non conosceva “muri” e dove toccherà a un angelo riconoscere semi di umanità.

Poi, l’omaggio a Pasolini. E ancora, un fastidio verso il linguaggio misero della politica, ma almeno su questo gli è stata risparmiata l’epoca più decadente nella quale ci troviamo immersi. Tutto questo sino a qualche notazione più personale. La stima verso i “maestri”: Enrico Emanuelli e Sergio Zavoli.

Per chiudere con la sua terra. E le biografie. Quelle quattro, in particolare, anche se non le uniche. Gramsci. L’anarchico Schirru. Emilio Lussu. E l’ultima, su Enrico Berlinguer.

Radici

All’epoca di quel video ci stava lavorando da tre anni. E l’ultima domanda a sé stesso non poteva essere che una: ma perché solo sardi? La risposta è un tributo a Giuseppe Dessì.

Perché, dice, «Se in Sardegna raccolgo un sasso, una pietra, di quella pietra so tutto: quali acque l’hanno fatta ciottolo, quali venti l’hanno levigata».

Ascolti quella frase e ti sembra di comprendere che, al fondo, ricostruire la parabola di quegli uomini è stato anche il modo di raccontare le radici di una terra.

Che poi la scelta di scavare nella loro vita era anche il modo di condividerne i tratti, almeno alcuni. In particolare il legame tra la storia lunga dell’isola e il senso di giustizia che generazioni diverse hanno voluto, saputo o potuto coltivare. Perché leggi quella e le altre biografie e scopri tracce di un cammino dotato di una lenta coerenza.

Fiotti di miseria

In una nota introduttiva a Baroni in laguna – l’inchiesta-racconto che Peppino Fiori conduce a Cabras all’indomani di un delitto “per disperazione” – Salvatore Mannuzzu spiega perché la Sardegna, nel suo nucleo più antico, sia «terra di due codici: quello esterno (ed estraneo) dello stato, e quello interno al quale la gente crede».

Poi, leggi le pagine del libro-inchiesta e tutto questo lo capisci. La descrizione delle abitazioni: «una sfilata di case uguali…basse, di mattoni d’un impasto di argilla e paglia, le malinconiche case di fango del Campidano… fiotti grigiastri di miseria».

Scorri quelle descrizioni e ritrovi il filo di una coscienza civile.

Eretici

Dicevo delle biografie. Una storia italiana è quella che Fiori ha dedicato a Ernesto Rossi. Nei mesi del confino Ernesto Rossi aveva scritto il saggio dal titolo più bello mai immaginato: Abolire la miseria.

La conclusione suonava caustica: «Noi non abbiamo nessuna fiducia nell’armonia creata spontaneamente dalle forze economiche».

Più o meno è lo stesso tracciato denso di una umanità disperata che porta Peppino Fiori in quella inchiesta sul delitto di Cabras a esprimersi così: «Mi si venivano dunque precisando i lineamenti segreti di un mondo irriducibile entro normali schemi di giudizio».

Sono anche queste parole a spiegare la scelta di quelle biografie. Perché, ciascuna a modo suo, riflettevano una forma di eresia dagli schemi di giudizio del loro tempo.

Gramsci

È stato così per Gramsci. La prima delle quattro vite indagate e ricomposte. Il libro esce alla metà degli anni Sessanta e propone un intreccio formidabile di vita familiare, l’infanzia, la malattia, con un carattere giovanile già padrone di una saggezza ribelle.

C’è in quel volume tutta la profondità di pensiero, ma anche la consapevolezza di un ruolo più pesante delle spalle che avrebbero dovuto sostenerlo. Anche se poi lo fece: quel ruolo lo sostenne. Lo fece come marito, padre e uomo politico oltre che intellettuale.

Gramsci vive l’isola. La studia, la comprende. Nel 1919 scrive: «La lotta di classe si confondeva con il brigantaggio, con il ricatto, con l’incendio dei boschi, con lo sgarrettamento del bestiame, col ratto dei bambini e delle donne, con l’assalto al municipio, era una forma di terrorismo elementare senza conseguenze stabili ed efficaci».

Poi, ancora la biografia racconta gli anni di studio a Torino dove abbandona il positivismo, studia il marxismo, legge Labriola, tiene una rubrica di critica teatrale per l’avanti. Lo farà, cito, «per il gusto del ragionamento è una lingua sorvegliata».

Una lingua “sorvegliata”, lo trovo bellissimo se ripenso all’insofferenza per una lingua sciatta in quella breve intervista a sé stesso.

Scavare nelle vite

Gramsci muore il 27 aprile del 1937, Francesco, il padre, due settimane dopo, il 16 maggio. Ma prima di morire, ci racconta Peppino Fiori, più volte aveva voluto risentire la lettera di Nino alla mamma, quella scritta il 10 maggio del 1928, alla vigilia del processo. 

«Vorrei che tu non ti turbassi qualunque condanna stiano per darmi, e comprendessi anche col sentimento che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico… A volte gli uomini devono dare dei dolori alle loro madri se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità».

L’onore. Parola così rimossa nel nostro tempo. Eppure a volerla descrivere basterebbe il concetto di Leopardi: l’onore è la cura che ciascuno ha del giudizio degli altri nei confronti di sé. Forse anche questo modo di sentire riflette la scelta di scavare nelle vite di quelle personalità.

Un giornalista

Ho iniziato con quella intervista a sé stesso di Peppino Fiori. Tutto sommato la si può comparare a un altro documento più vecchio di qualche anno.

È l’ultima intervista che Enrico Berlinguer rilascia a Giovanni Minoli. Anche lì ci sono riflessioni legate alla politica, ma insieme a qualche concessione alla vita privata.

Minoli gli chiede cosa gli dispiace si dica di lui e la risposta è «che sarei triste, perché non è vero», e lo dice abbozzando un sorriso timido. E infine la domanda più profetica: «Cosa le piacerebbe si dicesse di Lei?». «Che sono rimasto fedele agli ideali della mia gioventù».

Mi piace immaginare che Peppino Fiori a quella domanda di Minoli avrebbe potuto offrire la stessa risposta.

Tra i tanti commenti dopo la morte del leader comunista, a rimanermi impresso è stato il commiato di Fortebraccio sulla prima pagina de L’Unità. Se la spicciò in due righe: «È stato un uomo politico. Vi pare una banalità?».

Peppino Fiori è stato molte cose, direttore di Paese sera, vice direttore del Tg2, senatore della Sinistra indipendente, scrittore di saggi, biografie, romanzi. Intellettuale e uomo di parte che ha sempre coltivato lo spirito critico necessario a non divenire uomo di fazione.

Nella sua vita è stato tutto questo e tanto altro ancora per la sua famiglia, i suoi amici, le persone che lo hanno conosciuto e vissuto da vicino. Ma se dovessi raccontare con parole mie chi è stato Peppino Fiori, potrei parafrasare Fortebraccio e dire semplicemente così. «È stato un giornalista. Vi pare una banalità?».

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