La giustizia rappresenta una delle modalità principali attraverso le quali le società europee, uscite dal secondo conflitto mondiale, fecero i conti con il recente passato. Come in ogni transizione dalla guerra alla pace e da un sistema politico ad un altro, “fare giustizia” comportava la creazione di legislazioni e tribunali speciali in grado di processare e punire le figure di primo piano dei regimi nazista e fascista, perseguire i crimini di guerra, rendere giustizia alle vittime di stragi, deportazioni, uccisioni sommarie, torture.

Mentre in Germania, a Norimberga, dal novembre 1945 all’ottobre 1946 furono processati i vertici del regime nazista, in Italia operarono tribunali speciali incaricati di perseguire i reati di “collaborazionismo col tedesco invasore” – le corti d’assise straordinarie (Cas), attive tra l’aprile e l’ottobre del 1945 – e, in seguito, le sezioni speciali delle corti d’assise in vigore fino al giugno 1947.

L’amnistia Togliatti

La transizione da un regime all’altro si attuava non solo attraverso la legislazione straordinaria e i tribunali speciali ma con il ricorso a provvedimenti di clemenza quali amnistie generali e grazie individuali. È del 22 giugno 1946 la prima amnistia nei confronti dei collaborazionisti che prende il nome dal guardasigilli Palmiro Togliatti.

I processi nei tribunali non fermarono e, a volte, diedero nuovo vigore a fenomeni extragiudiziari quali regolamenti di conti, vendette, episodi di giustizia sommaria nei confronti di ex fascisti.

Per quanto riguarda l’azione legislativa e giudiziaria, la scelta operata dai governi Bonomi era stata di non mettere sotto accusa l’intero regime fascista ma il periodo posteriore all’8 settembre 1943, quello dell’occupazione tedesca della penisola e della Repubblica sociale italiana (Rsi) di Mussolini. Il decreto legge del 22 aprile 1945, n. 142, aveva istituito le Cas, con il compito di giudicare i reati di “collaborazione con il tedesco invasore”. Il termine “collaborazionismo” comprendeva reati specifici previsti dal codice penale militare di guerra come rastrellamenti, partecipazione a incendi e distruzioni, collaborazione allo spoglio di opere d’arte o alla rapina di beni; partecipazione alla deportazione di ebrei, a plotoni d’esecuzione, a tribunali speciali della Rsi; sevizie o delazioni ai danni di civili e partigiani, collaborazionismo economico.

Secondo una relazione del ministro di grazia e giustizia Adone Zoli, dal luglio 1944 al dicembre 1952 vi erano stati 5.928 condannati per collaborazionismo. Di questi 259 erano stati condannati a morte e la sentenza era stata eseguita per 91 di essi, prima dell’entrata in vigore della Costituzione, il 1° gennaio 1948, che segnò la definitiva abolizione delle esecuzioni capitali. Tenuto conto dei successivi provvedimenti di amnistia, di liberazione condizionale e delle grazie individuali, al 31 dicembre 1952 i condannati per collaborazionismo che risultavano ancora detenuti erano 266, i latitanti 334.

Il provvedimento di clemenza più significativo fu l’amnistia Togliatti. Presentata come necessaria per «un rapido avviamento del paese a condizioni di pace politica e sociale», un atto «di fiducia nei destini del paese», prevedeva l’amnistia per reati comuni, politici e militari. Allora e in sede storiografica ha suscitato valutazioni contrastanti, tra chi l’ha considerata indispensabile per voltare pagina rispetto al passato e chi l’ha giudicata un “colpo di spugna” sui crimini della Rsi e degli alleati tedeschi. Quale che sia il giudizio, fu un’amnistia ampia ed estremamente precoce se si pensa che in Germania e Francia provvedimenti a favore degli ex nazisti e collaborazionisti furono presi nel 1951. L’applicazione estensiva del decreto di amnistia ottenne l’effetto di annullare gran parte delle pene già erogate e di sancire il non luogo a procedere per molte cause ancora in corso, con l’immediato rilascio di un ampio numero di condannati e notevoli sconti di pena per altri.

Processo alla Resistenza

Quando gli esiti dell’amnistia cominciarono a essere visibili tornarono a moltiplicarsi gli episodi di violenza contro ex fascisti, attuati sia direttamente dalla folla, sia da squadre partigiane ricostituite, e si diffuse la convinzione che la Resistenza fosse stata tradita. Nell’agosto 1946 qualche migliaio di partigiani tra Piemonte, Liguria, Oltrepò pavese, Veneto dissotterrò le armi e tornò in montagna.

La rivolta di Santa Libera, nell’astigiano, fu l’episodio più celebre in tal senso. In quel difficile dopoguerra i partigiani di Santa Libera si fecero interpreti di istanze generali di carattere sociale, economico, politico. Il II governo De Gasperi accolse in parte le loro rivendicazioni: assunzioni di partigiani, di civili e militari deportati in Germania, equiparazione dei combattenti ai militari volontari, alcuni benefici economici.

Nessuna concessione, invece, per le richieste più politiche come l’abrogazione dell’amnistia, la soppressione del partito dell’Uomo qualunque, la messa fuorilegge dei fascisti. Già il 27 agosto 1946 i partigiani avevano sciolto il presidio di Santa Libera, convinti anche dalla garanzia di impunità promessa. In realtà non pochi tra i protagonisti della rivolta furono incarcerati o costretti a lasciare il paese per evitare l’arresto, vendette e ritorsioni. Proprio nel 1946 ebbe inizio il cosiddetto “processo alla Resistenza”, che avrà il suo culmine tra il 1948 e il 1954, con l’avvio di procedimenti giudiziari contro partigiani per azioni avvenute prima e dopo il 1943-1945.

Il governo Bonomi, prima della fine del conflitto, aveva stabilito che le azioni di guerra «compiute per la necessità di lotta» contro i nazifascisti non erano punibili (decreto luogotenenziale 12 aprile 1945, n. 194), posizione sostanzialmente confermata fino al settembre 1946 dal II governo De Gasperi.

Dalla fine dello stesso anno ogni riferimento alle motivazioni alla base dell’attività dei partigiani scomparve e le loro azioni furono interpretate alla luce delle norme civili. I giudici delle corti d’assise ordinarie considerarono, ad esempio, rapine o furti le requisizioni di mezzi di trasporto o i prelevamenti di viveri per il sostentamento delle formazioni e trattarono come omicidi comuni le fucilazioni di spie catturate anche se ordinate dai comandi o da direttive Alleate. Secondo dati parziali, per il periodo dal 1948 al 1954, 1.697 partigiani furono arrestati e di questi 884 furono condannati a complessivi 5.806 anni di carcere.

La giustizia negata agli ebrei

Se partigiani e antifascisti cominciarono a sperimentare il mancato sostegno dell’opinione pubblica e delle istituzioni, lo stesso accadde agli ebrei perseguitati per motivi razziali dalla Rsi e dai tedeschi, arrestati e inviati nei campi di sterminio. Si è calcolato che dei 6.806 ebrei italiani deportati solo il 12,3 per cento sopravvissero. I processi contro i responsabili della deportazione degli ebrei italiani negli anni della Repubblica di Salò furono pochi e pochissimi quelli che si conclusero con condanne, che non ricaddero nell’amnistia o nell’assoluzione per insufficienza di prove. Secondo Mimmo Franzinelli «una tragedia epocale fu liquidata come una miriade di piccoli lutti familiari, concernenti solo i diretti interessati».

Esemplare può essere considerato il caso della maestra ebrea Clara Pirani, arrestata nel maggio 1944 per ordine della questura di Varese, consegnata alle Ss di stanza a Milano, trasferita nel campo di Fossoli, deportata e morta a Auschwitz-Birkenau. Mario Bassi, responsabile delle deportazioni di ebrei in quanto capo della provincia di Varese e poi prefetto di Milano, era stato condannato per collaborazionismo a dieci anni, ridotti di un terzo e subito liberato in seguito all’applicazione dell’amnistia del 1946. Nessun risarcimento fu concesso alla famiglia.

In merito al processo e al suo svolgimento, le parole delle figlie della Pirani possono essere prese a epigrafe dei vinti di questa storia italiana di «giustizia negata»: «Noi siamo sempre rimaste al di sotto dei giochi della politica e degli imprevisti della storia, in quella zona inferiore, destinata a soccombere. Siamo rimaste ostinatamente sole, in quell’aula di giustizia, ad attendere l’esito di una lotta ineguale».

© Riproduzione riservata