Rotta X casa di Dio, 883, sesto ascolto di seguito sul telefono della mamma: la storia di un viaggio che va a rotoli perché a quei tempi non esistevano i telefoni e quindi nemmeno la Signorina che dice dove girare, ma soprattutto perché Cisco sta un sacco di tempo in bagno e fa partire tutti in ritardo.

E pure noi siamo in ritardo, di sei Rotta X casa di Dio, per la precisione. Se lo poteva risparmiare, almeno oggi: una stella. Settimo ascolto.

Tra l’altro lui di sicuro in bagno non ci ha passato un’eternità, perché mio papà, Uberto senza la m, dal bagno ci schizza fuori dopo un minuto, qualsiasi cosa debba fare: proprio qualsiasi. Sembra che abbia paura, a restarci dentro: forse è bagnofobico, o bagnofobo. Poi però in ritardo ci arriva lo stesso, sempre, ci puoi rimettere l’orologio sui suoi ritardi; ma di sicuro non per colpa del bagno.

Io invece tutto al contrario, in bagno mi ci porto i libri (quattro stelle) e ci posso stare anche un’ora, e anzi spesso mamma viene a strapparmici, dal gabinetto, e mi sgrida che serve a tutti, che non è il mio lettoio. “Lettoio non è una parola: due stelle” vorrei dirle, e però non glielo dico, perché in quel momento, quello in cui vorrei parlare, la mia attenzione è tutta presa dallo strappo bruciante delle cosce che si staccano dal water dopo che ci si erano incollate, erano quasi diventate una cosa sola con la tavoletta. In realtà i libri che leggo non sarebbero adatti per un settenne, oltre al fatto che non dovrei leggerli al gabinetto.

Un bimbo strano

Comunque va così: mi piacciono i libri da grandi e in casa il posto in cui sto meglio in assoluto è il gabinetto, con la porta chiusa ma non a chiave. Queste cose, insieme ad alcune altre, tipo che a scuola va come va (due stelle) e mi distraggo in continuazione, mi hanno fatto considerare un bimbo strano: non me lo dicevano, ma per capirlo non ci voleva un genio – e tra l’altro chissà che io non lo sia, un genio: l’ho già detto, che leggo i libri per grandi?

In ogni caso a me non me lo dicevano, che ero strano: se lo dicevano tra loro la mamma e papà Uberto senza la m, specie quando litigavano, e non si capiva se la colpa della mia stranezza era di mia madre che non mi aveva lasciato mai respirare o di mia nonna paterna che mi faceva fare la vita del selvaggio. Che la colpa della mia stranezza fosse di mio papà Uberto senza la m non sembra sia stato mai preso in considerazione: forse la stranezza la attaccano solo le donne, o forse mio padre è proprio l’ultima ruota del carro, come dice lui.

La faccenda della stranezza comunque ormai è superata: adesso ho smesso di essere strano perché, pagando fior di quattrini, mi hanno fatto andare dalla psicologa. Una donna bellissima, la psicologa, da grande credo che avrò una moglie così: bella, coi capelli lunghi e che parla quasi sottovoce (cinque stelle piene). Mi dicevano «ti portiamo da una persona che ti fa giocare un po’», e io sinceramente non capivo dove volessero portarmi, però capivo che non me la raccontavano giusta, e avevo paura che fosse dal dentista o a fare il vaccino antinfluenzale. Poi arrivo lì e leggo sulla porta “Psicologa”, allora mi tranquillizzo.

La psicologa

Dalla psicologa ci vanno tutti, c’è stato Andrea, c’è stata Nicoletta, c’è stato pure Enea – Enea dopo che la mamma si è ammalata (ora però sta meglio). Non ce n’è uno che ne parli male, della psicologa, non si capisce perché a me pensavano che non sarebbe piaciuta, forse perché ero strano, o forse è solo che pensano che sono ancora piccolo.

Come mi fa infuriare, quando dicono che sono piccolo: una stella, ma solo perché meno non si può. Comunque, dicevo, la psicologa è costata fior di quattrini (meritatissimi) ma ora non sono più strano: pare che me l’abbia proprio scritto su un foglio col timbro. Infatti secondo me era meglio se ci portavano Giammarco, dalla psicologa, che lui sì che è strano: non si distrae mai e poi mai, e se è distratto la risposta la sa comunque, e a motoria gli riesce sempre tutto al primo colpo, che a guardarlo dici «Ma chi ce l’ha il controller del tuo corpo?» (cinque stelle di strabilianza).

Invece che sia Giammarco quello strano non lo ha mai pensato nessuno, e quando qualcuno, tipo me, gli dice che va dallo psicologo, lui lo guarda come per dire «Per forza, alla buon’ora». «Alla buon’ora» vuol dire che finalmente sono arrivati anche gli altri a capire quello che Giammarco aveva capito da mo’.

La mamma, seduta davanti in macchina, è al telefono con Roberto (due stelle), il suo nuovo fidanzato, che non è più nemmeno tanto nuovo, mi pare – è passata da Uberto a Roberto, la mamma: deve avere un tipo fisso – e dice che lo raggiunge appena quell’irresponsabile di mio padre (dice proprio «suo padre», forse per non confondersi tra i vari -berto) si decide ad arrivare. «Irresponsabile» è la parola che mia madre associa più spesso a papà Uberto senza la m quando non è arrabbiata; quando invece si arrabbia lasciamo perdere. «Irresponsabile» è una delle molte parole con la I che la mamma usa per papà quando non usa le parolacce, insieme a «Immaturo», «Indeciso», «Insensibile», «Insicuro». Ma anche altre: tipo, quando parla con lui gli dice sempre: «Sei Incredibile», che sembra una cosa bella ma se gliela sentite dire capite subito che è peggio di «Irresponsabile». Comunque «irresponsabile» vuol dire che papà è ancora come un bambino, e che senza la sua mammina non si troverebbe il sedere con le mani, che a lui serviva una balia non una moglie e che tiene la casa in un modo che c’è da vergognarsi a farci dormire un bimbo. Il bimbo ovviamente sono io, che però non mi sono mai vergognato della casa nuova di papà: certo, è piccola e non ha un balcone, però non ci si sta male (tre stelle).

L’unica cosa veramente schifosa della casa è l’odore del criceto Tordello (il nome l’ho scelto io, quattro stelle e mezzo), che sta nella sua gabbietta in salotto (quattro stelle lui, una stella il puzzo), e però non me ne posso lamentare perché l’ho voluto prendere io, quando ancora non sapevo quanto puzzava, e ormai è lì, e io e papà dovremo convivere col puzzo (soprattutto papà) ancora tra i due e i quattro anni, secondo internet. Speravamo meno.

«Tempo di qualità»

Però a parte Tordello ci vado abbastanza volentieri, a casa di papà, a meno che non si metta in testa di passare con me del «tempo di qualità», come dice lui, che è quando decide che dobbiamo parlare anche se non abbiamo niente da dirci (due stelle, non posso darne meno perché è sempre mio papà). Finito il «tempo di qualità», poi per fortuna tira fuori l’unica cosa per cui se mai un giorno il giudice mi chiederà se voglio vivere con papà o con mamma dovrò pensarci bene, prima di rispondere: la Play (cinque stelle piene piene). Può darsi che papà non abbia combinato niente nella vita, sia come padre che come uomo, per colpa della Play e del Fantacalcio e di tutte quelle cose da adolescente immaturo che continua a fare, come dice mamma, ma la Play è la Play (cinque stelle, l’ho già detto?).

E non c’è solo la Play, e nemmeno solo che quando sto lì si mangia la pizza (due stelle e mezzo: la prendo solo pomodoro perché ho paura che la mozzarella filante mi soffochi, anche se quella che prende mio padre ha la mozzarella dura che non sembra correre nessun rischio di filare, però non si sa mai). L’altra cosa che mi piace quando sono da papà è che non mi fa addormentare nel lettino mentre mi legge delle storie da piccoli, ma mi lascia guardare con lui Netflix finché non mi addormento (quattro stelle).

La serie sugli 883

Abbiamo visto insieme anche la serie sugli 883, una band che era famosa ai suoi tempi. Mi aveva convinto a guardarla perché si intitolava Hanno ucciso l’Uomo Ragno, anche se l’Uomo Ragno non c’era, c’era solo un ponte su un fiume e due che andavano sul motorino sotto la pioggia, però mi piaceva lo stesso (quattro stelle), perché era una cosa da grandi e anche perché dicevano un sacco di parolacce, e a me tutte le volte che le dicevano mi veniva da ridere non tanto per le parolacce, che non mi piacciono, ma perché vedevo che mio padre Uberto senza la m si imbarazzava, e ogni tanto mi diceva «Però non lo dire, alla mamma, che abbiamo visto questo film, dille che abbiamo visto un cartone». Io non glielo dicevo, alla mamma, che avevamo visto un cartone – non vuol dire nulla, se non dici che cartone è –, però dicevo «Abbiamo visto l’Uomo Ragno», così lei non si arrabbiava e io non dicevo una bugia senza motivo (cinque stelle di furbizia a me).

Papà mentre guardava il film su questi due in motorino sotto la pioggia era felicissimo, rideva un sacco, e ogni due minuti mi diceva dov’era lui in un certo momento, cosa faceva, gli amici, le fidanzate e altre cose di quando era giovane, poi cantava le canzoni e mi guardava tutto contento, come a dire «Guarda come la so bene», e io lo guardavo come a dire «Bravo papà, cinque stelle», ma non capivo bene perché.

Poi ha avuto l’intuizione e ha comprato i biglietti per andare insieme, io e lui, al concerto degli 883 dentro il circuito di Imola dove corre la Ferrari.

«Sono ancora vivi?» gli ho chiesto io, che mi sembrava che il film avesse un’ambientazione antica, e se loro erano grandi quando mio padre era giovane, vuol dire che ora che mio padre è grande loro dovrebbero essere morti.

E invece: «Macché, sono giovanissimi» mi dice papà, ma io metto l’informazione nel cassetto delle cose che sarà meglio verificare quando mi compreranno un telefono.

Ho tantissima fiducia, in mio papà, ma ogni tanto dice qualche bugia. Me l’ha detto mamma in confidenza; lei dice sempre che la sincerità è la prima cosa, e se non c’è la sincerità poi le persone si lasciano, ma che comunque lei non mi lascerà mai (il discorso non fila granché: tre stelle per le buone intenzioni). Mamma giura che con me è sempre stata sincera, ma da quando mi ha detto che è normale che Babbo Natale porti i regali qualche giorno prima e li tenga nell’armadio di casa, perché ora che è vecchio non vuole avere troppo lavoro la notte di Natale, ho capito che anche lei con la sincerità insomma (due stelle, diciamo). Ma soprattutto ho trovato molto brutto che per avere ragione arrivasse a mettere in discussione la magicità di Babbo Natale. “Magicità” non esiste, però rende l’idea (quattro stelle anche se non esiste).

Il concerto

Mia mamma ha fatto di tutto per non farci andare al concerto, anche se papà aveva già preso i biglietti. Diceva che ero troppo piccolo, che ci sarebbero stati milioni di persone, e la strada, il traffico, gli ubriachi, e poi nella calca mi sarei perso, come in quel film, e quando c’è tutta quella gente non funzionano nemmeno i telefoni. Io ho cominciato a pensare che era meglio non andare, ma poi mio padre ci si è messo di punta, forse perché una volta Roberto mi ha portato al cinema solo io e lui. E io nel frattempo chiedevo sempre a mamma di mettermi sul telefono Con un deca, Hanno ucciso l’Uomo Ragno, Nord sud ovest est, e alla fine si è convinta a lasciarmi andare (una stella, mamma: io le ascoltavo proprio perché speravo che alla fine mi dicessi: «Le hai ascoltate abbastanza, non importa fare tutta quella strada per sentirle una volta di più in mezzo ai pericoli»).

Papà arriva con un ritardo di quasi dieci Rotta X casa di Dio e mamma lo accoglie con un: «Sono tre quarti d’ora che aspettiamo, dov’eri finito? Manco rispondevi al telefono».

«L’avevo dimenticato a casa, ho fatto tardi perché sono dovuto tornare a prenderlo.»

«Ora sì che sono tranquilla».

«Andiamo, piccolo» mi fa papà senza risponderle. (Che mi chiami “piccolo” una stella, che diventano due perché si vede che lo fa per cercare di essere dolce.)

Mamma mi dà un abbraccio e io la stringo forte, fortissimo, e non mi va di lasciarla, perché mica sono tanto sicuro che sia una buona idea, il concerto il traffico la calca. Pure il telefono a casa, lasciava: forse è vero che è irresponsabile, Uberto senza la m. E pure mamma che mi lascia andare, siamo sicuri che ci abbia pensato abbastanza?

Ce ne fosse uno, di cui fidarsi.

«Il rialzino ce l’hai?» chiede mamma, che sa già la risposta.

«Ma quale rialzino? Ormai è grande.»

«A volte sto anche davanti» aggiungo io, e mio padre mi guarda malissimo: era un nostro segreto, ma mi è sfuggito, perché a me stare davanti è una cosa che mi piace da matti (cinque stelle).

«Dai, prestami il tuo, te lo ridò domani» dice papà.

Mamma sbuffa ma glielo dà.

«Posso stare davanti?» chiedo.

«Manco morto» risponde lui (due stelle, ne meriterebbe una ma anch’io ci ho messo del mio).

Le parolacce

Appena partiti papà mette gli 883. Parte Rotta X casa di Dio: tra tutte proprio quella che stavo ascoltando sul telefono di mamma quando è arrivato.

Buon segno, mi piacciono i buoni segni (cinque stelle), penso che forse andrà tutto bene, la calca non mi schiaccerà, io non perderò papà e i telefoni funzioneranno.

Papà canta la canzone; io no, la conosco, farei troppa fatica a saltare le parolacce: ce ne sono undici in quattro minuti e cinquantuno secondi; oppure nove, perché due si ripetono.

«Dai, cantiamo insieme» dice papà, che sembra molto contento.

«Ci sono troppe parolacce».

«Durante il concerto puoi dire tutte le parolacce che vuoi. È una zona franca».

Franca è la mia maestra, che figurati se mi fa dire le parolacce. È una di quelle volte che papà dice cose insensate (altra parola con la I che gli sta bene).

«No che non posso».

«Solo durante il concerto. Ti do il permesso io» insiste.

Io non rispondo. Le regole vanno bene se sono regole, se invece poi uno fa come gli pare non servono a nulla. Anche perché poi sicuro mi scappa di dirlo a mamma e lo metto ancora più nei casini, Uberto senza la m. Irresponsabile.

«Puoi dormire un po’, se vuoi, il viaggio è lungo».

Dico ok, ma col cavolo che dormo: in macchina il cervello va molto più veloce, e mi piace che vada in giro da solo.

Papà prova a farmi qualche domanda, mi chiede anche di mamma e Roberto, vuole sapere se vanno a vivere insieme. Io non apro bocca, proprio come promesso a mamma, e lui dopo un po’ si stanca.

«Omertoso» mi dice.

Io sono stanco delle parolacce e resto zitto.

Il viaggio è davvero lunghissimo, e anche il cervello si stanca di andare in giro da solo. L’ultima parte la facciamo praticamente fermi, e intorno a noi ci sono un sacco di persone a piedi che ci superano. Anche se sono stanco di stare in macchina mi viene in mente una parola: “imbottigliati”, che è una parola bellissima (quattro stelle, non voglio esagerare), e basta questo per farmi tornare l’entusiasmo.

Penso alla nave che mi ha comprato mamma in vacanza l’anno scorso: imbottigliata anche lei, stupenda. Papà per il traffico diventa nervoso, però se sta pensando di tornare indietro non me lo dice. Continua a prendersela con la Signorina, che ricalcola il percorso ogni minuto e allunga il tempo che dovremo stare in macchina: arriverete tra 14 minuti, anzi 22, anzi 41: non ha senso, e anche i numeri che dice sembrano sparati a caso. Quattro stelle alla Signorina perché ci dice la strada e senza saremmo persi come in Rotta X casa di Dio, ma una stella per i tempi dati alla barù.

Essere Max

Io non ho mai visto tanta gente come quando, dopo esserci fatti rapinare dai parcheggiatori, come ha detto papà, cominciamo a camminare verso l’entrata. Ovunque guardo c’è gente in fila per qualcosa, e poi c’è una fila gigante di cui non si vede la fine e dentro ci siamo anche noi. Camminiamo finché non ci troviamo in mezzo a un mare di gente.

Sono nel circuito della Ferrari, però della pista non c’è traccia, con tutte le persone che ci sono sopra. Mi sono emozionato un po’ solo quando siamo passati dentro i box, ma poco (due stelle e mezzo).

«Dai, fermiamoci qui» dice papà.

«Il palco non c’è?»

«È là» mi dice prendendomi in braccio e indicando una cosa così lontana che se ci sono delle persone sopra non si vedono.

«Ma non si vede».

«Per quello ci siamo messi sotto questo maxischermo» dice lui. «Sai, siamo ottantacinquemila persone.»

Io preferivo non ricordarmelo, che eravamo così tanti, però è anche vero che delle ottantacinquemila persone ottantaquattromila ce le abbiamo davanti, quindi alla fine non stiamo schiacciati come temevo.

Il concerto è bello, lo passo quasi tutto sulle spalle di papà Uberto senza la m, sennò vedevo solo le chiappe di quelli che avevo intorno (“chiappe” si può dire). A un certo punto una coppia di Milano con cui papà aveva parlato un po’ e che mi avevano chiesto come mi chiamavo e altre cose che gli adulti chiedono ai bimbi ha pietà di lui e dice che magari per un paio di canzoni mi tengono sulle spalle loro: io non so perché ma non ho paura, salgo, e il signore Luca è anche molto più alto di papà. Tieni il tempo (quattro stelle) e La regola dell’amico (tre stelle) le ascolto sulle sue spalle e le canto anch’io (una sola parolaccia, ma so dov’è e la schivo facilmente).

Papà intanto si scrocchia la schiena. “Si scrocchia la schiena” è una frase che mi piace, quattro stelle, me la ripeto e mi fa ridere.

Poi torno sulle spalle di papà.

A un certo punto finalmente comincia la nostra canzone preferita, che si intitola Gli anni (96), e la cantiamo a squarciagola. Papà mi stringe le cosce da sotto e canta, e io pure canto forte e lo abbraccio e gli do ogni tanto dei baci sulla testa spelacchiata. Cinque stellissime, anche se da qui si vede bene che i capelli di papà sono proprio pochi, specie nel mezzo, ma non me ne importa nulla. Lui canta sempre più forte, poi, verso «il tempo passa per tutti lo sai / nessuno indietro lo riporterà, neppure noi» si inceppa e l’ultimo ritornello lo canta strano.

«Papà, ma stai piangendo?» chiedo.

«Ma scherzi?» mi dice lui. In effetti sarebbe assurdo, gli adulti mica piangono. Poi io sono leggero, di sicuro non posso avergli spezzato la schiena.

«Sarà una delle ultime canzoni» dice lui, che dopo la canzone è diventato tutto moscio. «Forse ci conviene cominciare ad avvicinarci all’uscita, così evitiamo di restare bloccati nel traffico anche al ritorno».

«Papà?» gli dico in macchina.

«Dimmi».

«Ma gli 883 non dovevano essere due?» Lui ci mette un attimo a rispondermi, quindi aggiungo: «Max Pezzali e Mauro Repetto», che io con i nomi ho un certo talento, me li ricordo dalla serie.

«Ora ne è rimasto solo uno».

«Allora non sono più gli 883». Provo a fare il calcolo di quanto è la metà di 883 ma non mi riesce.

«Sì, sono ancora gli 883: gli 883 è Max».

«Allora l’883, non gli».

«No, sono sempre gli».

«Perché?»

«Perché è così». Una risposta che odio: una stella e mezzo.

«E Mauro?»

«Mauro a un certo punto, molto presto in realtà, se n’è andato».

«Dove?»

«In America».

«E perché?»

«Perché non gli andava più».

«Non si devono mai lasciare gli amici. Mai».

«A volte capita, di lasciarsi».

«No» insisto. «Una stella a Mauro Repetto».

«Ma che dici? Guarda che capita spesso. Magari era solo irrequieto.» Una parola con la I, che però non conosco.

«“Irrequieto” vuol dire “irresponsabile”?»

«No».

«“Immaturo”?»

«Non ripetere sempre le cose di mamma».

«Allora cosa?»

«Ma nulla... Magari capita che una persona sia da cinque stelle, e però non ce la fa a reggerle, non le vuole, gli pesano, e allora preferisce lasciar perdere. E le lascia andare, finisce  che le fa marcire. Capisci? Si spaventa, magari. E poi boh, le cose vanno sempre come gli pare a loro, mica le controlli».

Io non ho capito, ma vedo che papà ci tiene al suo discorso, me lo dice col tono dolce di quando vuole che impari qualcosa di importante; però è chiaro che le stelle sono stelle, non sono mica mele, che marciscono.

«Forse preferiva giocare alla Play che fare gli 883?»

Uberto senza la m non risponde, forse non ha sentito, allora provo a fare un’altra domanda.

«E invece Max?»

Ci mette una vita a rispondere, così tanto che mi sono quasi scordato la domanda e mi sto per appisolare.

«Altre volte capita che magari uno è un tre stelle, ma un tre stelle così perfetto, cristallino, che pare la formula perfetta del trestellismo: non tre stelle meno un pezzetto, non tre stelle e qualcosina: un tre stelle assoluto. E allora magicamente riesce a parlare a tutti, tutti gli vogliono bene. È difficilissimo, essere Max».

«“Cristallino” vuol dire che si rompe?»

«Al contrario, non si rompe mai».

Io sbadiglio. Sarà tardissimo: lo sento negli occhi, che è tardissimo.

«E io cosa sono?» chiedo.

«Tu sei... Vediamo... Tu sei un sei stelle e mezzo».

Mi viene da ridere, che assurdità che dice a volte Uberto senza la m, ha ragione mamma.

«Il massimo è cinque» spiego, anche se non ce n’è bisogno.

«Ah, certo. Allora sette stelle e un terzo con l’amplificatore. Anzi, nove e tre quarti col turbo».

Rido ancora. È proprio scemo.


da L’amore inevitabile. Storie di genitori, storie di figli, Mondadori 2025 

© Riproduzione riservata