Max c’è una pandemia. Una cosa piuttosto strana. Primo pensiero?

Che a vent’anni mi dicevo “Il mondo è mio, cazzo!”. E non mi bastava neanche l’idea di poterlo conquistare il mondo, mi sembrava troppo poco. Adesso dove vai? Puoi conquistare al massimo il salotto. Non è una bella cosa, diciamo.

Che si dice della pandemia nella cumpa del bar di Pavia?

Nel bar di provincia è ovviamente compreso tutto l’arco costituzionale. Da quello del “te l’avevo detto io” che cita qualche minchiata che potremmo avere detto tutti, fino al complottista. Però sto notando che i miei amici e coetanei non ci scherzano troppo.

Non c’è nessun negazionismo, alla fine se ne escono solo con un vaffanculo di rabbia e paura, perché cominciamo a sentire l’accerchiamento dei numerosi conoscenti e parenti che l’hanno preso. Nella prima ondata era una cosa lontana e irreale, ora no, ora è ben presente in ogni gruppo sociale e anagrafico.

Quest’estate c’è stata l’illusione che fosse finita, ora è una cosa che hanno tutti. Mio figlio è in quarantena. Poi leggi del supersportivo di trent’anni che finisce in terapia intensiva e cominci a chiederti, ma se a lui è andata così, a me cosa accadrebbe? Insomma, adesso c’è la paura, quella vera, almeno qua in provincia.

La pandemia ha disvelato i drammatici limiti della classe dirigente italiana. In termini generali, qual è la cosa che ti ha sorpreso o spaventato di più di quello che è accaduto nella politica italiana recente?

La cosa che non mi sarei mai aspettato, come cambiamento generale che non riguarda solo la politica italiana – parlo anche di Trump per esempio – è la pratica sempre più diffusa di negare l’evidenza.

Una volta i politici avevano paura di contraddirsi rispetto a una cosa che avevano detto anche anni prima e quindi costruivano ragionamenti convincenti rispetto al cambiamento di posizione, per paura di essere tacciati di aver detto il contrario. C’era molta attenzione sulla plausibilità della narrazione.

Oggi questo non conta più. Sembra che sia i politici che noi tutti abbiamo ormai la memoria del pesce rosso. Nonostante la tecnologia eviti l’effetto oblio, perché quello che hai detto rimane per sempre, tutto è a verbale, anche se glielo mostri con tutta la sua evidenza, essi negano, semplicemente mentono senza farsi problemi. Se anche uno dello schieramento avverso glielo fa notare, parte un vaffanculo, che precede la fase tarallucci e vino e infine il passaggio al prossimo argomento. Trovo tutto questo folle e spaventoso.

Sono ormai persuaso che oggi lo strumento di comunicazione politica per eccellenza consista proprio nell’ignorare platealmente il principio di non contraddizione…

Sì, e ne soffro. Io per ogni cosa che faccio, ho sempre il dubbio di star dicendo una cazzata – anche solo dire che Vidal è un fenomeno e poi cambiare idea, mi fa soffrire, temo di non essere preso più sul serio. Questi invece mentono sulla vita delle persone e non gliene frega un cazzo. Mi pare di vivere in un mondo distopico, in cui ormai vale tutto e il suo contrario, allo stesso tempo. Che è una cosa che rasenta la follia collettiva.

Hai seguito le elezioni americane? Come sta il tuo mito del west?

Il pensiero è questo, e te lo dico subito è un pensiero molto da Generazione X. È valsa la pena di vivere il 2020 anche solo per una cosa: il Four Seasons Total Landscaping. Non riesco a capacitarmi. È oltre. È genialmente idiota. Giuliani che fa una conferenza stampa accanto al negozio di sex toys, è l’emblema di un paese e di una narrazione che ha perso tutto.

Il mio mito americano si è schiantato contro la realtà di un paese astioso, diviso, nel quale emergono realtà sempre più inquietanti e inspiegabili, questioni razziali mai risolte. Spero che dal punto di vista almeno culturale qualcosa possa cambiare grazie a Biden.

Poi guardo il documentario sull’ultimo album di Springsteen, con i musicisti ghost e il bianco e nero, e mi dico, ecco! a questo io appartengo, di questo sono innamorato, non certo dei Boogaloo boys o i Proud boys, gente che va in giro con le camicie hawaiane e i fucili automatici AR15 – avere l’hawaiana con i caricatori come simbolo è piuttosto spiazzante, direi così come adottare Pepe the frog, o l’unicorno con l’arcobaleno come propri simboli, non ho gli strumenti per decodificare questo tipo di orrore.

Anche la testa di cazzo, una volta aveva una logica, ora non riesco a capire che tipo di testa di cazzo sei, in questa frammentazione assurda di simboli. Questi fenomeni se non li conosci non li puoi capire e se non li capisci non sai nemmeno come combatterli. Non resta che sperare che si esauriscano da soli.

Bene, su con la vita adesso. Parliamo di canzoni d’amore. Allora le canzoni d’amore sono esercizio complicato; le tue canzoni d’amore non sono complicate, sono impossibili. Ricordi, nostalgie acrobatiche di cose che non abbiamo mai avuto, sfiga. Diciamo che è parte della tua poetica…

Ma quale poetica; noi facciamo artigianato paroliero.

Voi cantautori? Vabbè su questo ci torniamo dopo.

Sì, meglio. Il concetto è che ho capito che la nostalgia non deriva mai da un motivo particolare; io non ho nostalgia di un periodo. Io ho nostalgia della mia età innocente e ingenua, non è nostalgia infatti, è uno stato della mente vicino al quale ti piace parcheggiarti un po’.

Non c’è più e non ti ricordi nemmeno perché e forse non c’è un perché… semplicemente al mattino ti svegli un po’ così e pensi di aver sognato lo stato d’animo nel quale ti trovi, perché se provi a cercarne il senso non lo trovi in fatti reali o ricordi.

Però riesci a essere anche rassicurante. Il tuo pezzo Il mio secondo tempo nel quale forse per la prima volta ammetti, forse innanzitutto a te stesso, di essere diventato grande.

Esattamente. La vecchiaia sta arrivando.

Ma tu continui a usare lo stesso linguaggio, nonostante sia nel pieno di una specie di seduta di autocoscienza generazionale…

La cosa assurda in questo percorso che ho fatto, che poi è una delle mie forme ossessive, è che io paradossalmente avevo più nostalgia a 25 anni. Nostalgia del nulla probabilmente. Arrivato a 40 anni mi sono reso conto che c’è un modo dignitoso di vivere anche dopo i 40 anni, che non vuol dire fingere di essere giovane, vestirsi ancora un po’ da giovane e poi salta su tuo figlio, ti dà del boomer e ti fa capire in un attimo che sei fuori luogo. Ecco, ti devi fermare quei due centimetri prima.

Non guardare avanti facendo finta di essere ancora giovane, no; devi accettare un altro modo, esiste un modo. Deve esistere. E comunque ti hanno detto che c’è. Prima o poi lo troveremo.

Dici eh?

Sì. Un pezzo che si chiama se non fosse per te contro il piangersi addosso tipico di quelli della nostra generazione, soprattutto nelle relazioni affettive. Il testo dice: Sono sempre a pagina uno/impantanato in qualche casino/do sempre la colpa al destino…ma anche basta, non facciamo i patetici, non è colpa sempre del resto del mondo. Siamo noi. I nostri fallimenti son dovuti a noi.

Ma gliel’hai detto a tuo figlio che sei della Generazione X e non un boomer?

Certo che gliel’ho detto! Noi siamo gli xers, noi c’eravamo con Smells like teen spirit quella roba è proprio l’anti-boomer, anzi gli xers sono stati ovviamente i più grandi contestatori dei boomer.

Peraltro mi ero segnato di chiederti proprio questo: questa cosa che accusano gli xers di non saper crescere, di stare ancora in jeans e sneakers… Ti assicuro che non ho sentito tuo figlio prima di chiamarti.

Sai quando ti dicono “se vuoi superare il senso di ansia nei confronti delle persone immaginatele sedute sul water”, quelle minchiate che dicono nei film brutti? Io invece dico: se tu vuoi capire realmente il tuo ruolo nel mondo oggi e il tuo livello di giovanilismo sbagliato pensati al colloquio con i professori di tuo figlio. Quella è la pietra di paragone.

Io oggi sono uscito da una serie di colloqui con grande difficoltà, sei a casa, sei decontestualizzato, parlo con loro e mi chiedo se al colloquio di persona sarei credibile per come sono vestito o il professore penserebbe subito che sono un coglione?

Mio figlio mi vede a confronto con i genitori degli altri, magari c’è il chirurgo, insomma quelli che lavorano veramente, allora mi sento in soggezione… io però continuo a credere che siamo quelli che conoscono sia il mondo di prima che il mondo di poi e quindi possiamo essere traduttori di realtà incompatibili tra loro. Questa è la missione della generazione X. Siamo quelli che sono rimasti vivi dopo il digitale.

Vivi… insomma. Comunque sì, tocca essere orgogliosi quando ce la si fa.

Io non credo che la nostra generazione sia stata decifrata. Pensa alle montagne di studi sui millennials.

In effetti sì, manca proprio quello. Ma ci sto lavorando, tranquillo… un concetto che mi piace molto è quello del latchkey kid, che è il ragazzino che aveva le chiavi da casa fin da bambino. Siamo stati la prima generazione con entrambi i genitori lavoratori e quindi passavamo un sacco di tempo da soli a casa. Io ero un latchkey kid. Tu?

Assolutamente e sono stato di fatto allevato e cresciuto dalla tv dei ragazzi, la tv del pomeriggio almeno nella fase pre-figa, è stata la grande compagnia e modello di riferimento. Io non gliela farei mai fare, quella vita ai nostri figli… lasceremmo le chiavi di casa a dieci anni?

Quando mai. No. Però sono convinto che mi abbia fatto bene, che abbia fatto bene alla nostra generazione.

Gli stessi che ci facevano fare quella vita lì adesso mi dicono “oh quando andate in vacanza state attenti che ci son posti pericolosi”. Io gli dico “ma siete matti? Era molto più pericoloso stare con voi nella vita normale!”. Una volta gli ho detto che sarei andato in Austria con mio figlio e loro mi han detto di stare attento perché son posti pericolosi. L’Austria! Ma se siamo sopravvissuti a una pre-pubertà solitaria con le chiavi di casa e la vicina come massima risorsa in caso di emergenza, fumavate in macchina con i finestrini chiusi e ora rompete il cazzo con l’Austria?

Parliamo ancora di generazione X. Tu sei uno che non sembra recitare mai, sei sempre lo stesso, in privato e in pubblico… diciamo che sei autentico, ecco. Una parola che in musica ha una sua storia piuttosto complessa.

Io per molti della nostra generazione sono quello che sai che più o meno al bar c’è sempre, ti puoi allontanare, farti le tue esperienza poi torni e lo trovi lì, ad ascoltare le tue cazzate. Io mi sento una specie di presidio, l’ultimo baluardo del bar prima dell’oblio. Sto di sentinella alla Fortezza Bastiani.

…sì ma nel tuo caso qualcuno prima o poi arriva sempre. E restando lì fermo, dopo più di vent’anni di carriera, sei diventato di colpo un cantautore. Un po’ la critica – a parte qualche illuminato che ti aveva beccato subito, come Alberto Piccinini sul Manifesto – ma soprattutto i tuoi colleghi “indie” più giovani. Ti hanno promosso a maestro.

Guarda il tema non mi fa impazzire, non è una cosa che rivendico, ognuno può incasellarmi come meglio crede, a me va bene tutto. Però penso ci sia un problema culturale in Italia; si pensa al cantautore al piano o con la chitarra. L’idea di un cantautore con il laptop non è ancora passata. Il cantautore deve ancora avere una sua liturgia, una fisicità precisa, uno strumento preciso. È limitante perché non puoi pensare che il cantautore sia solo quello che deriva da Bob Dylan.

Io penso che i fattori per i quali tu non sia stato accolto dalla comunità dei cantautori siano innanzitutto il tipo di musica che stava sotto le tue parole fin dall’inizio…

Ah certo, suoni che riportavano all’italo-pop, che era considerata come una cosa deteriore…

E in secondo luogo il gigantesco successo, cosa che ha immediatamente affibbiato l’aggettivo “commerciale” ai tuoi pezzi. Che è una definizione che ho sempre respinto, perché penso che tutto abbia ovviamente scopi commerciali, o per lo meno tutto ciò che si vende…

Ah beh, sì. Se ti fanno un contratto è solo perché qualcuno spera di ricavarci qualcosa. E in effetti è la perfetta fotografia della realtà di allora. C’erano le tribù, c’era molto manicheismo. Occorreva trovare il limite, l’elemento discriminante. Cosa è punk? Cosa è metal? Beh, se c’è l’assolo di chitarra è metal; se è suonato “bene” non può essere punk, perché il punk va fatto da gente che non sa suonare.

Io ero incredibilmente manicheo. Se in un pezzo c’era l’assolo di chitarra allora era una canzone di merda.

Che poi è passata anche questa cosa, ormai non li fanno più. L’accesso al mondo non era semplice come oggi, c’erano dei limiti che non si potevano scavalcare. Il rock che arrivava dagli anni Settanta mandava a cagare i metallari, perché pensavano fossero solo una brutta copia. Nello stesso tempo il punk veniva menato a destra e sinistra, stava sul cazzo a tutti, sia ai rockettari che ai metallari. Poi c’erano i rockabilly – a Milano saranno stati otto – ma appunto essendo in pochi erano molto aggressivi.

Poi arriva il sintetizzatore, la dance. Oggi puoi dire che figata i Daft Punk con la chitarra funky. La chitarra funky era vietata in assoluto! Se avevi dei suoni come i miei, con una produzione come quella di Claudio Cecchetto che aveva prodotto Lorenzo Jovanotti, tu andavi negli stessi studi e i suoni erano quelli, le macchine erano quelle, e quindi ti veniva naturale fare quelle robe lì. Ero tagliato fuori da ogni possibile tribù musicale e questo mi metteva nell’unica categoria che conteneva tutto il resto: il commerciale.

Ora le tribù non ci sono più, è tutto più liquido, ci si muove da ogni parte, almeno metaforicamente… come sono cambiati quelli che vengono ai tuoi concerti?

Ho visto aggiungersi persone molto diverse, anche di ambienti che non avrei mai pensato, tipo i metallari o ex-metallari. Ci sono persone che mi hanno rivalutato negli anni, è un pubblico che non ha più caratteristiche definite e riconoscibili, ognuno ha preso la propria strada però alla fine quando ci si ritrova tutti insieme è un po’ tipo riunione dei compagni di classe, tutti diversi da com’erano allora, anche inaspettatamente e anche se quasi non ci si riconosce più si canta tutti insieme. Mi capita di incontrare persone che mi dicono che hanno preso i biglietti per i miei show a San Siro che mi vien da chiedergli “Oh, ma sei sicuro di voler venire a un mio concerto? Sei proprio sicuro?”.

Concerti che come tutti gli altri sono saltati a causa della pandemia… ci sarà un cambiamento di come le persone vivono il tempo libero e il divertimento dal tuo punto di vista, quello del palco con le folle di fronte?

Credo che le folle torneranno perché il concerto non è andare a sentire uno che canta. È andare a sentire te stesso che canti con la tua fidanzata o i tuoi amici, o sconosciuti che sono lì per lo stesso motivo. Paradossalmente è più plausibile che non sia più necessario registrare le canzoni in studio. La musica è nata non registrata, c’erano solo gli spartiti, la gente se la suonava da sola a casa e gli editori musicali nascono per gli spartiti. La musica potevi solo andarla a sentire o suonartela da solo.

Il rito del luogo è cruciale. Pensiamo all’Edm. Non c’è nessuno che suona dal vivo. Sono due chiavette Usb e c’è un tizio che controlla che le cose accadano nel modo e nel momento giusto, ma è l’evento collettivo lo spettacolo, è l’essere lì tutti insieme, condividere l’esperienza. Tornerà per forza perché il bisogno delle persone di essere folla, di condividere quel tipo di emozione, è insopprimibile. Penso che quando tutto sarà finito la gente avrà una tale voglia di comunità che non torneranno a casa per settimane, sarà un’esplosione di gioia e vitalità. Denaro permettendo.

Ecco appunto. È difficile vedere la fine del dramma, penso ai lavoratori dello spettacolo, della cultura, degli eventi.

Nessun settore industriale o commerciale può permettersi uno stop così lungo. Un settore che ha subito moltissimo la pandemia è quello del trasporto aereo, ma è too big to fail, Alitalia l’abbiamo salvata cinquanta volte, la salveremo la cinquantunesima e la cinquantaduesima.

Ma quando ci sono 570mila liberi professionisti o singoli associati in cooperative minuscole succede che a nessuna frega nulla perché non fanno massa critica, non è una cosa sola che crolla, sono tantissimi piccolissimi a crollare, tante palline che cadono in tempi diversi fanno meno rumore di una sola che ti colpisce in faccia. Apparentemente il danno è minore, ma ovviamente non è così. Quando Bauli in Piazza, l’associazione che difende queste categorie, è andata a parlare con il Ministro Franceschini sembrava che da parte sua ci fosse una grande attenzione, poi come direbbe Elio tra il dire e il fare c‘è di mezzo “e il”.

Vedremo se gli interventi saranno tempestivi e sufficienti. Comunque vada ci sarà una guerra tra mondi diversi: se il governo dovesse cominciare a sostenere i lavoratori dello spettacolo rispetto ad altre categorie ci sarebbero certamente proteste, si direbbe che sono categorie avvantaggiate perché hanno la voce dei “famosi” dalla loro e dunque fanno opinione e consenso.

C’è un insieme di complessità e criticità a macchia di leopardo, io spero che si riesca a fare qualcosa perché altrimenti questo settore non si riprende più. Ci sono professionalità talmente specifiche che non puoi aiutare in altro modo. Un backliner non può andare a fare la stessa cosa in un settore che non sia la musica.

Ok, in bocca al lupo a noi. Che musica stai ascoltando ora?

Allora io adesso ho una dritta per voi. Mi è capitato recentemente guardando uno di quei siti da meganerd di musicmaking di scoprire la scena della Congo-Techno. Ma non pensate che sia semplicemente la techno del Congo. No. È una roba pazzesca. Andate a cercarla. Scoprirete che il Congo non è solo terre rare e cobalto.

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