Tutti gli anni, quando arriva l’11 gennaio, anche senza dircelo, noi due ci ritroviamo a pensare a quello del 1999 che ci ha portato via Fabrizio De André. E quanto più ci manca ciò che di lui ci è tolto – tutta la poesia con cui ci avrebbe ancora sorpresi: quella con cui ci avrebbe fatti sentire capiti nelle nostre fragilità – tanto più, però, si prende la sua luce quello che resta. Le sue canzoni. La lezione alle vie di fuga nello sguardo, la ricerca dello spiazzamento. L’ironia. Che qualche volta diventa un graffio proprio contro la morte, come nel Testamento.

E questa è un’eredità che ci dobbiamo meritare; anche solo provando a ribaltare le premesse. O meglio: provando, magari, a inventare «i mondi sui quali guardare». Concentriamoci allora non sul giorno, ma sull’anno – questo 2021 suo malgrado già così carico di aspettative e di responsabilità – che appena cominciato ci regala subito un anniversario illuminante.

(Ché sempre, poi, non si tratta tanto di tenere il conto degli anniversari mentre arrivano: ma provare invece a trovare quelli che ci riguardano ogni volta; visto che poi gli anniversari questo sono: una scelta di memoria tra i ricordi).

Non al denaro non all’amore né al cielo

Ecco. 1971-2021. I cinquant’anni dall’uscita di Non al denaro non all’amore né al cielo: arrivato fino a noi attraverso il regalo (ancora più lontano nel tempo) di Cesare Pavese alla sua allieva Fernanda Pivano – l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters – su cui poi De André avrebbe lavorato insieme a Giuseppe Bentivoglio e a Nicola Piovani (e basterebbero questa teoria di nomi a spiegare che in realtà ci accorgiamo del tempo passato solo nella vita, perché se lo conti lo puoi controllare; e invece nell’arte, se è arte, il tempo si cristallizza da sé, sempre, nell’avverbio che gli corrisponde).

1971, dunque. Almeno un motivo per digerire il fatto di compiere anche noi cinquant’anni: una data accettabile soltanto per la coincidenza del tutto fortunosa di spartire la nascita con un capolavoro.

Sì. Perché di anniversari e di capolavori si parla spesso senza dare il peso giusto alle parole che li significano. E invece, in questo caso, per noi due il 2021 diventa un modo per spiegarsi veglie al computer e attese laceranti, ubriacature d’amore e lutti mai accettati; amici trovati e perduti, libri eterni e dolori accessori dimenticati; e poi ritratti di giudici e malati di cuore, e domande su dove siano le Ella e Kate cantate nella Collina. O dove se n’è andato l’Helmer che si è lasciato morire di febbre.

E qui. Qui, proprio mentre il filo degli anni si aggroviglia su sé stesso come certi cenni di rughe che ci rappresentano, la differenza tra un semplice, pur struggente anniversario e un capolavoro, è che il capolavoro ci ricorda che la morte – per quanto si sforzi – con l’arte non esiste. Perché Helmer è, subito, il nome e il volto di uno dei tanti attorno a noi. E la malattia si veste della stessa nettezza senza scampo. E da qui è tutto un intrecciarsi di presente e di futuro; se ancora, dopo cinquant’anni, celebriamo la bellezza ritmica dei dizionari trovando ogni matto riscattato dalla buona compagnia di maiale, Majakovskij e malfatto.

Così, cinquant’anni di vita fatta di parole si fondono con cinquant’anni di parole fatte di vita; e rendono un anniversario quotidiano. Perché la vita si riavviva a ogni ritorno di parole. E allora ripartiamo dalle sue. Da quelle di Fabrizio De André. Invece di rimpiangere quelle con cui non ha potuto continuare ad avvolgerci, restiamo su quelle che ci sono.

Nella foto: il cantautore Fabrizio De André con il figlio Cristiano ©girella/lapresse archivio storico spettacolo musica anni '80

Che cosa avrebbe detto ora

Tutte le volte che ci siamo trovati (il passato, qui, è uno scarto morfologico obbligato dalla pandemia che momentaneamente ci inibisce il presente) a condividere un’esperienza in pubblico con Dori Ghezzi, c’è stato sempre qualcuno che a un certo punto ha rispolverato la grammatica del “che cosa avrebbe detto ora”. Come a sfiorare tramite lei un oracolo che sostituisse la nostra fatica necessaria di capire come provare a stare al mondo con la risposta pronta di chi, quando c’era, di quella fatica s’era fatto preterintenzionalmente carico per tutti. Come se la risposta che aveva trovato non fosse invece che la risposta non esiste.

Perché non esiste una verità sempre unica (questo, almeno, se si pone la domanda alla poesia e non alla scienza; che peraltro sa che la correttezza provvisoria di ogni scoperta è il metodo, visto che – per fortuna – i meriti migliorano nel tempo). Ed è più facile puntare lunaticamente il dito altrove per non guardare alle proprie miserie. Per non accettare insieme il fatto che «non esiste un giardino incantato»: per poi provare a renderlo incantato noi, magari attraverso una qualche forma d’amore che scoppi dappertutto. Una delle ultime frasi scritte da Fabrizio.

Nella foto: Fabrizio De André con la seconda moglie Dori Ghezzi ©girella/lapresse archivio storico spettacolo musica anni '80

E noi – noi tutti, a partire da noi che scriviamo – noi che ne invochiamo altre, di quella ci siamo scordati. L’abbiamo lasciata lì, nel rettangolo di un appunto che non ha incontrato la musica, non prendendo in considerazione la possibilità che questa volta la musica potevamo essere proprio noi. Gregory Corso ha scritto «A cosa serve Hemingway, se esiste la sedia elettrica?» e qui verrebbe da dire «A cosa serve De André, se non abbiamo imparato a riconoscerci esseri umani?»; riconoscerci per quello che siamo: magari inadeguati e sperduti, cialtroni e impenitenti.

E qui un dubbio affiora sulla soglia della coscienza: e se i contenuti non contassero niente? Se la poesia – l’arte, in tutte le sue forme – non avesse messaggi da dare? Se fosse solo l’artificio strabiliante con cui qualcuno riesce a incantarci nel tempo effimero delle emozioni? Magari è proprio questo il modo in cui gli artisti vivono per sempre. Perché ci indicano la strada per rinnovare quell’emozione e l’incanto tutte le volte che li rincontriamo nella meraviglia delle loro creazioni.

Se poi le creazioni attraversano gli anniversari rinnovandosi (l’infinito privilegio che l’opera può, nel futuro, contrapporre alla vita per supplire a ogni sua mancanza presente agli occhi di chi la fa): le parole e la musica diventano di chi gli servono. E così Morgan può filologicamente riscrivere Non al denaro non all’amore né al cielo mentre lo rilegge. Io posso dire ancora all’amore di un tempo “eppure un sorriso io l’ho regalato” anche se quell’amore non esiste più; e io invece rammaricarmi del fatto che “la scienza”, per quanto ti sforzi, “non puoi regalarla alla gente”. Con tutto quello che ciclicamente questo significa.

Parlare con le parole che ci sono perché qualcuno le ha già trovate: e renderle vive; e ringraziarle provando a non tradirne mai la musica che le sostiene. Uno dei lasciti infiniti (anche perché mai finiti) di Fabrizio De André. Che infatti ha dato nuova vita, con le sue, alle parole di Lee Masters.

Del resto. In che altro modo potremmo defilarci dall’ottusa, caparbia volontà di limite della morte? In quale modo possiamo davvero celebrare gli anniversari, se non concediamo alle parole che usiamo il beneficio, rigenerante, di una buona ambiguità guascona che le soluzioni facili degli slogan non potranno mai guastare?

Parliamo di tutti gli anniversari che restano e di quelli che ci restano mentre il tempo passa. La cura che i capolavori insegnano è nel tentativo di guardare bene – l’unica forma umanissima e puntuale di profezia – la vita che ci accompagna giorno per giorno.

(Arriva in questo modo anche lo spiazzamento di due risposte parziali dopo aver decretato l’impossibilità di risposte). E allora. Non al denaro, non all’amore né al cielo: ma a tutto questo; e a tutto quello che resta prima della data sospesa che ci renderà – tutte e tutti noi – anniversari di noi stessi.

Da qualche parte nel tempo Fabrizio è sempre lì a leggere di Francis Turner e di “Fiddler” Jones (diventato flautista per questioni di metrica); sempre lì ad alzare gli occhi dalla pagina pensando “si può fare”.

E ci sarà sempre, ogni volta che l’ascoltiamo. Finché dura.

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