Quando un po’ di anni fa, per dare una più larga possibilità di opzioni, Facebook modificò l’elementare menu a tendina che chiedeva ai nuovi utenti di specificare se fossero maschi o femmine, mi parve una buona idea. Se uno non si riconosce in una opposizione così brutalmente binaria, perché imporgliela? Immaginavo, lo confesso, alternative piuttosto banali come bisessuale, transessuale, ermafrodito. Io da giovane, da maschio che desiderava altri maschi, ero comunque convinto che i generi fossero due, né dubitavo della mia maschilità. Le transessuali che conoscevo mi raccontavano di essersi sempre sentite prigioniere in un “corpo sbagliato”, ma anche loro parlavano come se uomo e donna fossero generi chiari e immutabili.

Solo negli ultimi dieci anni ho cominciato a capire che le cose sono molto più complicate di così: c’è chi si sente donna ma non ha nessun desiderio di rinunciare ai caratteri primari maschili, chi si veste da donna nella vita quotidiana pur sentendosi perfettamente uomo, chi ha speso soldi e dolore per una transizione da maschio a femmina ma alla fine del percorso si dichiara lesbica. Le opzioni su Facebook sono diventate una cinquantina, e c’è anche uno spazio bianco per chi non si dovesse trovare a proprio agio in nessuna di quelle; si va da “gender questioning”, cioè uno/una che se lo sta ancora chiedendo a che sesso appartiene, fino a quelle/quelli che hanno proprio smesso di chiederselo, sicure/sicuri di non appartenere a nessun genere (“agender”) o di appartenere a tutti (“pangender”).

Il valore delle minoranze

Sono piccole minoranze, si dirà; ma uno dei compiti della democrazia non è forse quello di garantire le minoranze? E poi può accadere che, culturalmente, le minoranze aiutino a far emergere problemi generali: qui, per esempio, il profilo arcaico dei generi sessuali concepiti come “naturali” – perché pensare che le bambine debbano vestire di rosa e giocare con le bambole, mentre i loro coetanei portano il fiocco azzurro e giocano coi carri armati in miniatura? Perché non potrebbero vestire entrambi di arancione, o di verde pistacchio, le bambine impegnate col meccano e i bambini con gli stampini del dolceforno? Il sesso dunque non è solo una questione di organi e di ormoni, ma è anche un processo social-psicologico di auto (e pure etero) identificazione? Su questo si scontrano sostanzialismo e funzionalismo, essenza e ruolo, su questo è stata messa in croce la povera J.K.Rowling, rea di aver twittato che una «persona che mestrua» potrebbe più semplicemente esser chiamata «donna»; su questo si è sviluppato un dibattito tra cultura trans e cultura queer.

Il festival di Sanremo, quest’anno, ha avuto un compito difficilissimo: mentre direttore artistico e autori si dannavano per portare a casa l’evento tra mille difficoltà sanitarie e senza il conforto del pubblico in sala, dovevano contemporaneamente regalare alle case degli italiani una parentesi di leggerezza ma anche «veicolare messaggi positivi» e di speranza. Tra i messaggi positivi (forse perché il festival si è svolto nell’immediata vigilia dell’8 marzo) c’erano quelli della parità di genere, dell’orgoglio femminile e, appunto, la divulgazione del “gender fluid” (cioè di chi si sente di volta in volta maschio o femmina, o neutro).

Che succederà, mi chiedevo curioso, se si propone un tema così delicato, articolato e pieno di sfumature, al corpaccione di quella che è stata definita (interpretando Gramsci secondo Pippo Baudo) la cultura “nazional popolare”, ma che sarebbe più realistico chiamare cultura di massa?

È accaduto che la parte principale, in questo senso, è toccata ad Achille Lauro; davvero fluido con le piume e i capelli turchini, o vestito da uomo ma con una lunga treccia fulva in omaggio a Mina, o efebo greco dorato e kitsch, o vestito da sposa ma col petto maschile scoperto mentre il compagno chitarrista era lo sposo in pantaloni e velo di tulle, o infine Sebastiano trafitto dalle rose. Sempre con unghie acuminatissime e glitterate.

Ma anche Mahmood si è presentato con una mise a mezzo tra le gonne maschili di Jean-Paul Gaultier e le tuniche jedi di Guerre stellari. E i mazzi di fiori anche ai signori, non solo alle signore, e ormai travestimento e orecchini non si negano a nessuno (più timide le cantanti a misurarsi con la maschilità, in una significativa asimmetria).

Nessuna trasgressione

Tasso di trasgressività? Direi quasi nullo, se pensiamo allo scandalo che nel 1965 fece Bobby Solo per un po’ di mascara agli occhi; il dolorismo di Achille Lauro, condito di poetiche allocuzioni inneggianti al diverso, non ha nemmeno l’ombra della ribalda sfacciataggine che aveva David Bowie quarant’anni fa. (Guia Soncini, nel recente e divertentissimo L’era della suscettibilità, ricorda un’intervista di Bowie a Playboy del 1976 in cui spiegava che la sua esibita bisessualità gli era utile a sedurre meglio sia uomini che donne).

La creatività sofisticata e genderless di Alessandro Michele, della maison Gucci, trasforma ogni apparizione di Achille Lauro in una performance glamour, e si sa che agli artisti è concesso quel che non si concede alla gente comune.

Il sessantenne idraulico che guarda il programma insieme alla moglie non ne è sconvolto, come probabilmente sarebbe se il suo nipotino teenager si presentasse a tavola con rossetto ed extension alla Ariana Grande.

Se poi ci pensa Fiorello a buttarla in vacca, parodiando il gender fluid e ricalcando il vecchio avanspettacolo, l’idraulico sessantenne si tranquillizza del tutto; se Fiorello e Amadeus cantano con mossette malandrine Siamo donne di Jo Squillo e Sabrina Salerno, vabbé allora è chiaro che non è cambiato niente: la gnocca è sempre la gnocca, il resto è carnevale.

Tutto a posto?

Dunque tutto a posto, l’ipotesi inquietante del gender fluid è stata addomesticata e digerita dalla cultura di massa, relegata a una eccentricità spettacolare? Non del tutto, forse nel nostro idraulico si è insinuato un seme di sgomento.

Già è spaventato perché le donne gli stanno sgretolando quel potere immaginario di cui si credeva detentore fondandosi su un uso equivoco del verbo “possedere” (se la “possiedo” nel senso di “penetrare”, allora vuol dire che quella donna è di mia proprietà); già gli omosessuali sono usciti dall’armadio e avanzano strane pretese; ora ci manca che i giovani si mettano in testa di poter scegliere il sesso che vogliono sull’onda di una generale spinta alla disintermediazione, buttando per aria istituzioni secolari.

Anzi peggio, non scegliere il sesso che vogliono ma scegliere di non scegliere, con i ragazzi che sembrano ragazze e viceversa, senza nemmeno voler scandalizzare ma per una forma di entropia, di calo della differenza di potenziale – a quel punto, chi desidera più chi? Fine del mondo traviato, calo di natalità, ce n’è abbastanza per iscriversi tra le sentinelle in piedi e applaudire Simone Pillon, senatore leghista. E se, per l’eterogenesi dei fini, l’entropia indicasse la stanchezza di una generazione rassegnata, se il gender fluid fosse un trucco del sistema per disinnescare il femminismo?

I dubbi dell’idraulico, lo ammetto, sono venuti anche a me; ma poi ho pensato al decreto Ferri del 1988, quello che fissava a 110 chilometri orari il limite di velocità in autostrada (poi ritoccato a 130 per le grosse cilindrate); si gridò al sopruso, alla limitazione delle libertà individuali – ma ora è normale rispettarlo, anche quelli con la Ferrari non spingono più di tanto in autostrada. Questione di abitudine, di vedere che il contesto si adegua.

Forse, pian piano, ci si abituerà a immagini e comportamenti sessuali non conformi, forse perfino l’idea di non-conforme cadrà nel dimenticatoio e le persone si accenderanno di desiderio secondo iconografie personali, non dipendenti da stereotipi. O almeno gli stereotipi saranno nuovi e di minor peso, perché oggi i persuasori occulti si succedono a velocità accelerata secondo l’incalzare delle mode. Forse allora il fatto che un tema così di fondo sia stato declinato in termini modaioli, e con pochi traumi, davanti a dieci milioni di spettatori, beh potrebbe non essere stato un male.

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