Nel 2009, in occasione dell’inaugurazione a Venezia dello spazio espositivo della Collezione Pinault, progettato da Tadao Ando all’interno della storica costruzione della Punta della Dogana, era stata collocata all’aperto nello spiazzo davanti alla Punta una monumentale statua alta circa due metri e mezzo: il Ragazzo con la rana realizzata apposta dallo scultore americano Charles Ray in acciaio dipinto in bianco.

La scultura era diventata per la sua posizione superpanoramica un punto foto previlegiato per innumerevoli turisti, e sembrava aver conquistato per sempre il diritto all’inamovibilità. Ma la sua presenza in quel luogo ha suscitato grandi polemiche e i veneziani, scandalizzati dalla profanazione di uno scorcio vedutistico così classico, sono riusciti infine a farla rimuovere nel 2013, sostituendola con una copia di un vecchio lampione ottocentesco.

Grazie anche a questa vicenda la statua è diventata famosa e, emigrata a Parigi, è ora la principale protagonista della grande retrospettiva dell’artista messa in scena al Centre Pompidou e alla Bourse de Commerce, trasformata (sempre su progetto di Tadao Ando) nella nuova bellissima sede della collezione di François Pinault.

Simulacri umani

La statua del "ragazzo con la rana" viene portata via da Venezia (laPresse)

Il Ragazzo con la rana è una figura nuda di un adolescente in piedi, di aspetto estremamente realistico, che sta osservando con sguardo distaccato un grosso batrace afferrato con la mano per una zampa. Il soggetto si ispira a un episodio narrato da Mark Twain, quello della meraviglia di Huckleberry Finn di fronte alla scoperta delle rane nelle acque del Mississippi.

Ma qui, allo stesso tempo, sono anche chiari i riferimenti alla grande arte del passato: all’Apollo Sauroktonos, al Perseo di Cellini che tiene in mano la testa della Medusa, e anche al David di Caravaggio con la testa di Golia. In mostra ci sono vari altri lavori che evocano modelli e iconografie museali, rilanciando in una problematica e ironica dimensione postmoderna il ruolo centrale della statuaria, e cioè della realizzazione di simulacri umani nella scultura.

Dipinte di bianco

Charles Ray si diverte a creare delle commistioni fra soggetti attuali e citazioni colte, con effetti stranianti determinati anche in particolare dall’utilizzazione di materiali nuovi e tradizionali, o finti tali. Per le sue sculture l’artista usa sofisticate tecniche di calco dal vero (e anche lo scanner per modellizzazioni in 3D) e realizza le opere con vari materiali tra cui l’acciaio, il fiberglass e anche una sorta di raffinata cartapesta. La maggior parte di queste figure sembrano di marmo di Carrara ma sono solo dipinte di bianco, alcune altre hanno superfici di metallo inox specchiante.

Burger, in acciaio dipinto di bianco, è un uomo seduto che sta mangiando un hamburger, in una posa simile a quella del Pensatore di Rodin, ma che allo stesso tempo sembra anche un omaggio ai calchi in gesso di personaggi in atteggiamenti quotidiani dello scultore pop George Segal. Un altro uomo seduto, scolpito in vero marmo bianco, rappresenta un povero senzatetto con le mani posate sulle ginocchia, che per la sua rigida compostezza e per la taglia gigantesca fa addirittura venire in mente la statua di un faraone.

Temi di carattere religioso entrano in gioco sia in Study after Algardi, una copia in cartapesta bianca di un Cristo crocefisso barocco che fluttua sospeso senza croce, sia in Doubting Thomas, una coppia di uomini nudi, con i piedi posati direttamente a terra, uno dei quali indica con un dito il costato dell’altro come l’apostolo incredulo.

Charles Ray, veduta parziale della mostra al Centre Pompidou, Paris, 2022. Photo Bertrand Prévost @Centre Pompidou-Bertrand Prévost

Spiazzanti

Due sculture in scala normale fanno diretto riferimento alla statuaria greco-romana. Si tratta di Young Man, un uomo in piedi nella classica posa del canone di Policleto, analoga a quella dei bronzi di Riace; e di Shoe Tie, un ragazzino inginocchiato che si sta allacciando una scarpa che è una libera citazione dello Spinario.

In questi due casi l’effetto spiazzante è decisamente accentuato dal fatto che le figure sono di lucido acciaio specchiante.

In acciaio inox è anche il sorprendente autoritratto dell’artista in sella a un cavallo, Horse and Rider, uno spettacolare e divertente monumento equestre collocato all’esterno davanti all’entrata, che sembra arrivato lì da una passeggiata per le strade di Parigi.  

Tutte queste opere documentano al meglio la fase più recente della produzione di Charles Ray caratterizzata da una ricerca in cui entra in gioco in misura sempre più approfondita e stratificata la questione cruciale dell’autoreferenzialità del linguaggio plastico, il rapporto fra l’iconografia della tradizione artistica e la rappresentazione della realtà attuale. La svolta in questa direzione operativa si è sviluppata a partire dagli ultimi due decenni. In precedenza, in particolare negli anni Novanta, l’artista si era affermato con “statue” molto più pop e ironicamente provocatorie giocando su paradossali scarti di proporzioni e metamorfiche mutazioni.

Charles Ray, Huck and Jim, 2014, fibra di vetro dipinta, 283,2 × 137 × 137 cm  Veduta parziale della mostra al Centre Pompidou, Paris, 2022. Photo Bertrand Prévost

Una scena sconcertante

In mostra sono presenti esempi che si situano ai poli opposti. Da un lato troviamo Puzzle Bottle (1994), un minuscolo minuzioso autoritratto in piedi dentro una bottiglia, e dall’altro lato due versioni di Fall 91 (1992), delle donne alte due metri e quarantaquattro centimetri vestite in modo elegante, con veri abiti, che posano come due giganteschi manichini, mettendo in imbarazzante soggezione i visitatori che li guardano dal basso in alto.

È inoltre presente il lavoro più noto e geniale di quel periodo e cioè Family Romance (1993) un gruppo familiare formato da figlia, figlio, madre e padre, tutti nudi, e tutti della stessa identica altezza, esposto anche in un’altra grande mostra dello scultore in corso al Metropolitan Museum di New York. Realizzato come le altre sculture di quegli anni in materiali sintetici  – fiberglass e silicone con interventi dipinti –, questo gruppo rappresenta un tipico nucleo familiare della middle class ma in una situazione e in dimensione del tutto destabilizzanti.

I personaggi allineati in piedi sul pavimento si tengono tranquillamente per mano. Ma la scena è sconcertante. Assomigliano a dei manichini svestiti nelle vetrine dei negozi ma sono minuziosamente definiti dal punto di vista anatomico e la messa in evidenza degli organi sessuali, in particolare dei genitori, è un elemento che crea una tensione perturbante che mette in crisi l’apparente armonia (asessuata) fra genitori e figli. E il fatto che tutti i componenti siano della stessa taglia fa sì che i bambini sembrino quasi “mostruosi” e i grandi dei nani: la manipolazione della scala sembra invertire i ruoli nel processo biologico della vita umana.

Giocare sugli scarti

Rispetto ad altri artisti (come gli esponenti della young british art Jake e Dinos Chapman, che negli stessi anni realizzano personaggi in fiberglass orribilmente metamorfizzati) Ray in questi suoi lavori utilizza una ironica strategia della sorpresa spiazzante per suscitare una riflessione critica sulla supposta normalità dei valori della società americana.

L’artista aveva incominciato a interessarsi ai manichini quando da studente lavorava come commesso in un grande magazzino di vestiti, ma solo più tardi, all’inizio degli anni Novanta, i manichini diventano una fonte di ispirazione per le sue nuove “statue”.

In precedenza, dopo aver studiato scultura alla Iowa School of Art, la sua ricerca si era sviluppata in direzione minimalista, per indirizzarsi poi progressivamente verso la realizzazione di oggetti realistici, arrivando anche a costruire con le sue mani delle repliche quasi identiche di veri e propri veicoli, come Fire Truck (1993) un rosso camion di pompieri, in alluminio e fiberglass, che viene esposto sulla Madison Avenue di fronte al Whitney Museum.

È probabile che per i suoi personaggi sia stato in parte influenzato inizialmente dalle sculture di gente comune di Duane Hanson, ma invece di utilizzare il mimetismo iperrealista di quest’ultimo ha preferito giocare sugli scarti di scala per creare una dimensione plastica di più ironica e paradossale spettacolarità.   

  

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