Ci hanno inondato di Union Jack. Nei portaceneri, sulle cartoline, sulle magliette, sulle tazzine e gli adesivi. Ma la bandiera inglese bianca e rossa con la croce di San Giorgio che ora dipinge le facce chi la conosceva? Quanti sapevano che quella dei portaceneri, risalente ai primi dell'Ottocento, sancisce l'unione (o la conquista?) e dell'irlandese San Patrizio? Che nelle coppe europee partecipassero Galles e Scozia (non l'Irlanda del Nord) lo sapevamo, ma fino a ieri Inghilterra e Regno Unito erano approssimativamente equivalenti nel discorso comune. Il turista distratto potrebbe dire vado in Inghilterra e poi visitare le highlands scozzesi. Così come l'inglese va in Italia e visita la Sicilia.

Da noi l'unità d'Italia è contestata, ma solo da frange di neoborbonici, senza squadra di calcio, e il tentativo di far partecipare la Padania a un torneo di nazioni inesistenti è finito nel ridicolo. Invece lassù, a differenza della Trinacria o della Catalogna, gallesi e scozzesi hanno da tempo la loro squadra di calcio. Il peso della storia, si dirà.

Ma ora l'unione-conquista è fuori moda: gallesi, scozzesi e irlandesi, rivendicano autonomia – di più, “identità”, parola magica. Attraversando la Scozia, in dieci giorni una volta sola ho visto l'Union Jack, quasi una provocazione; ovunque sventolava il bianco e blu scozzese della croce di Sant'Andrea, simbolo del martirio.

Del resto, non è forse vero che la Bank of Scotland emette sterline, che in teoria non hanno valore fuori della Scozia? Nei giorni scorsi gli scozzesi tifavano Italia, e disegnavano la faccia di Mancini-Braveheart: siamo nelle vostre mani, sconfiggere gli invasori! Perciò mai l'Inghilterra potrebbe innalzare l'Union Jack quando in campo giocano anche le altre nazioni sub-nazionali.

Illusione di appartenenza

Ma chi gioca in quelle squadre, dato che non esiste una cittadinanza sub-nazionale? Sarebbe difficile che in una squadra scozzese partecipassero popolari campioni inglesi, e viceversa, ma non è detto. Meglio oriundi, o comunque nazionali di recente nazionalità, meglio ancora se extraeuropei, anche se poi, dopo un inginocchiarsi per Black lives matter, se un ragazzetto nero, ancorché virtuosissimo, sbaglia un rigore, fiocca il razzismo.

Anche da noi, del resto, certi equilibri contano. Non è forse vero che la Juventus, squadra nazionale-meridionale, una volta era attenta ad arruolare giocatori del Sud, come il catanese Anastasi, acquistato nel 1968 si disse per ammansire la protesta operaia a Torino? Anche qui, meglio gli oriundi, cosicché dei campioni italiani di chiamano Jorge Luiz Frello Filho, detto Jorginho e Emerson Palmieri Dos Santos. Potenza della nostra emigrazione!

Ma poi, che la cittadinanza sia orpello fittizio, occasionale, lo abbiamo visto sul campo: quei campioni che si ritrovano per la nazionale, giocano in squadre dei paesi più diversi, nella continua girandola del “mercato”, cosicché rivali nelle partite del torneo si abbracciano come colleghi. Ed oggi è bello e giusto innalzare monumenti a Gigio Donnarumma (“e che parate!”, dice Mario Draghi), che va al Psg, e a Roberto Mancini, grande giocatore e allenatore italiano, ex del Manchester City (e del Galatasaray).

E così, fino a ieri la bandiera bianca e rossa era semmai un simbolo della destra nazionalista inglese, e ora sventola su 10, Downing street. Il calcio è un detonatore delle tante contraddizioni che scuotono gli stati nazionali. Intanto, il campionato è europeo, ma di una Europa che non corrisponde in nessun modo all'Unione. Si sa che vi partecipano Turchia e Russia, che di Europa hanno poco (se ne puo' discutere) e soprattutto Israele, estromessa dopo la guerra del Kippur nel 1974 dalla Confederazione calcistica asiatica e dopo varie peregrinazioni ammessa all'Uefa nel 1994.

Ma il calcio, che in mancanza di meglio insiste nell'identificare gli stati nazionali, soffre il mutare dei confini e l'esplosione delle nazionalità. Una storia tumultuosa. L'esplosione dell'Unione Sovietica ha moltiplicato le squadre.

Nel 1992, provvisoriamente partecipò la nazionale di calcio della “Comunità degli stati indipendenti” - dalla quale però si erano già staccate Estonia, Lettonia, Lituania, che peraltro partecipavano fin dal 1924 (mentre la Georgia se ne andò solo allora). Ad evitare ulteriori imbarazzi, tale “comunità” non superò il primo turno. Non parliamo poi degli stati ammessi alle olimpiadi; fino al 1988 le Germanie erano due, invece la Cecoslovacchia era una e si è divisa in due, e così la Jugoslavia, ammessa ai giochi olimpici fino al 2000, poi seguita da Croazia, Serbia e Montenegro (questi ultimi due nel 2004 hanno partecipato insieme).

E ancora si potrebbe proseguire con gli stati africani, e seguire le evoluzioni della Rhodesia, o del Sudan. O andare in Asia, fare la storia della Palestina, stato dalla sovranità dubbia, ammessa dal 1996,di Yemen, o dell'ammissione di Taiwan, finalmente accettata come Taipei purché non si denominasse Cina. Oppure domandarci fin quando Hong Kong, ammessa alle Olimpiadi nel 1952, lo sarà ancora come stato indipendente, o quasi. Per fortuna dal 2016 è ammessa una “Squadra Olimpica rifugiati”. Magari potrebbe ospitare i tanti errabondi.

© Riproduzione riservata