Trenta anni fa, il 16 luglio 1995, il neoeletto presidente della Repubblica Francesce Jacques Chirac fece una dichiarazione dirompente per l’anniversario della più tragica retata antiebraica avvenuta in Francia, quella del Velodrome d’Hiver. A Parigi furono arrestati e poi deportati più di tredicimila persone, di cui tre quarti donne e bambini. Partirono dalla Francia verso Auschwitz, ne tornarono solo un centinaio. In quella storica occasione il presidente francese ammise apertamente le responsabilità della Francia e dei francesi nella shoah e nella persecuzione degli ebrei, superando di fatto la precedente lettura che spostava queste accuse verso i tedeschi e i maggiorenti di Vichy.

In Italia, ad ottanta anni dalla fine della guerra, non abbiamo ancora avuto una tale presa di coscienza anche se la storiografia ha certificato le gravi responsabilità italiane nella Shoah e nella deportazione razziale e politica; il mito degli “italiani brava gente” e quello del “cattivo tedesco” ancora riscuotono successo, e questi cliché non hanno permesso comprendere che le nostre responsabilità partono dal fascismo ma arrivano ben oltre.

Il libro di Carlo Spartaco Capogreco, I campi di Salò edito recentemente da Einaudi è un ulteriore importante tassello verso la conoscenza delle responsabilità italiane della persecuzione ebraica. Lo storico dell’università della Calabria nel testo analizza il sistema di campi di concentramento e prigionia istituito per gli ebrei dalla Repubblica Sociale Italiana (Rsi) tra il 1943 e il 1945, portando un faro di conoscenza verso luoghi spesso dimenticati dal grande pubblico.

Mappa e analisi

Il primo grande risultato del libro, come ci tiene a sottolineare lo stesso autore, è quello di fornire al lettore – ma anche alla comunità scientifica – la mappatura generale dei “campi provinciali” voluti dal fascismo di Salò. Lo sguardo sulla cartina ci mostra a colpo d’occhio come lo stato fascista, appena rinato dalle sue ceneri, avesse messo la persecuzione degli ebrei tra i punti centrali della sua azione tanto da essere considerato «uno dei primi motivi conduttori della “rinascita” fascista».

Il secondo quello di colmare un vuoto su questa tipologia di campi che fino ad oggi non era mai stata esplorata nella sua totalità, ma esclusivamente trattata attraverso studi di singoli casi. L’analisi generale ci consente invece di trarre considerazioni più complessive su questo fenomeno rimasto colpevolmente ai margini della ricerca storica.

Con tale approfondita ricerca, l’autore mette in evidenza come il regime fascista repubblicano non sia stato un semplice strumento dei nazisti, ma abbia avuto un ruolo attivo e autonomo nelle persecuzioni contro gli ebrei. L’analisi del sistema concentrazionario fascista – che l’autore aveva iniziato a riportare pienamente alla luce con il saggio I campi del duce, del 2004 – ci evidenzia due elementi primari: quanto siano forti le responsabilità italiane nella Shoah e quanto sia robusto il collegamento tra l’internamento avvenuto prima e quello che è avvenuto dopo l’8 settembre.

Esiste quindi una certa continuità diretta, tra prima e dopo l’armistizio, che per gli ebrei ha significato un cambio di paradigma, la prigionia in quei campi si è trasformata dalla persecuzione dei diritti a quella delle vite.

Se prima dell’8 settembre 1943 le minacce di concentramento in campi specifici non vennero mai attuate, neanche per gli ebrei stranieri che si sarebbero dovuti allontanare dall’Italia dopo dell’introduzione delle leggi razziali del 1938, con lo scoppio del secondo conflitto mondiale, invece sotto Salò le politiche antisemite fecero uno scatto in avanti. E lo strumento dell’internamento fascista, fino a quel momento utilizzato soprattutto in chiave di repressione del dissenso, divenne una vera e propria misura antisemita, usata per rendere concreto il nuovo stereotipo dell’ebreo “nemico interno”. L’internamento ebraico della Rsi colpì oltre novemila ebrei italiani e stranieri, tutti perseguitati ora esclusivamente per morivi razziali.

Il provvedimento dell’internamento, che aveva una forte sintonia con il precedente istituto del confino di polizia, fino all’8 settembre 1943 nello stato fascista non corrispose ad alcun piano di eliminazione fisica degli ebrei.

Il momento di rottura

La situazione mutò radicalmente dopo la svolta dell’8 settembre quando avvenne la resa italiana nei confronti degli Alleati: da quel momento fino alla fine della guerra la penisola fu divisa in due, a sud l’Italia liberata, a nord la neonata Repubblica di Salò messa sotto tutela dall’occupazione tedesca con l’operazione Achse. La ferocia di quello che avvenne durante i 20 mesi di vita del Rsi, scaturisce dalle sue leggi, e si materializza con l’istituzione di una rete di campi provinciali per ebrei, amministrati direttamente dalle autorità fasciste repubblicane italiane.

Due sono le date fondamentali della persecuzione ebraica nel territorio di Salò, il 14 novembre quando fu emanato il Manifesto di Verona dove furono sanciti i principi costitutivi della Repubblica sociale, tra cui il punto 7 dove gli ebrei erano indicati come «stranieri nemici, e il 1° dicembre, data dell’ordinanza di polizia n. 5 firmata da Buffarini Guidi che imponeva agli ebrei la prigionia in appositi «campi di concentramento provinciali», e il sequestro dei loro beni mobili e immobili.

Capogreco individua diversi tipi di campi presenti in Italia centro settentrionale: i campi di internamento per ebrei: creati per concentrarli prima della deportazione verso Auschwitz e altri lager nazisti.

Tra i tanti censiti sicuramente tra i più noti e conosciuti ci fu quello di Fossoli, vicino Modena, usato inizialmente dalla Rsi e, dal marzo 1944, direttamente dai tedeschi come centro di raccolta prima della deportazione verso i lager nazisti. Altri campi importanti per le strategie persecutorie dei tedeschi e dei fascisti, si trovavano a Borgo San Dalmazzo (Cn), Bolzano e la Risiera di San Sabba a Trieste. In questi luoghi, la vita non era semplice: a seconda del luogo potevamo trovare situazione diverse come sovraffollamento, fame e malattie, ma anche maltrattamenti, torture ed esecuzioni sommarie.

La narrazione corretta

Queste sono solo alcune valutazioni, ci riportano all’aspetto centralo del libro che viene esemplificata con grande chiarezza dovuta ad una ricerca molto puntuale, è la demistificazione della narrazione secondo cui i nazisti avrebbero imposto tutto e i fascisti sarebbero stati semplici esecutori. Capogreco nel testo dimostra che la Rsi collaborò attivamente e autonomamente, in quanto le autorità fasciste parteciparono agli arresti, alla sorveglianza e all’organizzazione della deportazione degli ebrei e gli stessi vertici apicali della Repubblica Sociale, Mussolini e i suoi gerarchi approvarono e promossero queste politiche, nonostante sapessero a cosa andavano incontro i deportati.

Ancora oggi la narrazione ufficiale dell’Italia democratica attribuisce la responsabilità principale delle deportazioni ai nazisti, minimizzando il ruolo dei fascisti italiani, rimuovendo il coinvolgimento italiano, contribuendo a creare un negazionismo storico che minimizza il ruolo della Rsi nelle persecuzioni.

Purtroppo, tutte le responsabilità fasciste rispetto a questi crimini non emersero mai per vari motivi, dal nuovo posizionamento geopolitico del nostro paese dopo la fine della guerra, dall’assenza di condanne dovute all’amnistia Togliatti o più semplicemente la naturale voglia di girare pagina della popolazione civile: tutto questo ha però provocato un enorme amnesia su quello che i fascisti avevano fatto durante il periodo della Repubblica di Salò. Questa rimozione, arrivata rinforzata fino all’ottantesimo anniversario del 25 aprile 1945, è anche alla base del fatto che oggi può essere criticato il Manifesto di Ventotene, cuore antifascista della moderna Europa contemporanea, e non il Manifesto di Verona dove fu sostanzialmente data via libera alla Shoah in Italia.


I campi di Salò. Internamento ebraico e Shoah in Italia (Einaudi 2025, pp. 448, euro 30) è un libro di Carlo Spartaco Capogreco

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