Capita spesso che qualcuno mi chieda come nascono i miei romanzi, da dove vengono i personaggi che li abitano. La domanda ogni volta mi suscita una strana forma di perplessità, perché mi sembra che siano lì, nella dimensione separata della realtà in cui continuano a vivere, visibili, udibili, quasi tangibili. Prendiamo i personaggi de Il teatro dei sogni: Veronica Del Muciaro, la giornalista televisiva d’assalto di un programma trash di grandi ascolti, o Massimo Bozzolato, il sindaco di un paesotto di cinquemila abitanti, o Annalisa Sarmani, l’assessora alla cultura di un capoluogo di provincia, o Guiscardo Guidarini, l’archeologo irregolare che ha riportato alla luce un teatro ellenistico nel parco della sua villa cinquecentesca.

Dopo aver convissuto con loro mese dopo mese, giorno dopo giorno dalla mattina alla sera, a volte anche nel sonno, mi sono diventati così familiari che mi sembra di conoscerli da sempre, con lo stesso grado di intimità che ho con le persone più vicine.

Non riesco a vederli come semplici creature letterarie, né a considerarmi il loro padrone. Spesso mi hanno sorpreso, comportandosi in maniera imprevedibile, rivelando tratti che non avevo immaginato, costringendomi a cambiare il corso della trama. Scrivere di loro ha richiesto metodo, disciplina, lunghi periodi di autoisolamento: sarebbe un’attività per masochisti, se non avesse anche un risvolto esilarante.

Il fatto è che un romanzo e i suoi personaggi nascono da una stranissima miscela di intenzioni razionali, affioramenti inconsci, eventi magici. Non so come sia per gli altri scrittori, ma nel mio caso molto prima di scrivere la prima parola sulla prima pagina mi servono anni di osservazioni, riflessioni, dubbi, domande.

Poi a un certo punto una storia affiora, come in un sogno a occhi aperti, in una serie di immagini che acquistano definizione ogni volta che torno a pensarci, fino a rivelare una varietà di dettagli all’inizio invisibili. C’è un tema di fondo, o ci sono più temi, che proiettano luci e ombre sulla trama: nel caso de Il teatro dei sogni l’oscillazione pericolosa tra informazione e disinformazione, la facilità con cui le pseudo-verità possono essere fabbricate e diffuse, l’inadeguatezza di gran parte della nostra classe politica, la tradizione molto italiana (e anzi, pre-italiana) delle lotte di campanile, la devastazione del paesaggio, l’incapacità crescente di sognare.

E c’è tutta la gamma di espressioni umane che vengono rappresentate ogni giorno sul palcoscenico della vita: l’ambizione, l’avidità, l’arroganza, il bisogno di attenzione, la curiosità, la superficialità, l’amicizia, l’amore.

Una torta millefoglie

Mentre ci pensavo e ripensavo, nello stato di sospensione che precedeva la scrittura, ha cominciato a venirmi in mente un’immagine che poteva essere al cuore della storia, e anche contenerla tutta: un teatro in stile ellenistico, scoperto incongruamente su una collina del nord Italia, in perfetto stato di conservazione.

Mi sembrava che potesse avere un doppio significato, come luogo fisico e metaforico. Il mio romanzo ideale assomiglia a una torta millefoglie, sta a chi legge la scelta tra farne un solo boccone oppure assaporarne gli strati uno a uno.

Poco alla volta dentro e fuori dal teatro ellenistico hanno preso forma alcuni personaggi, con i loro modi di fare, i loro caratteri, le loro aspirazioni, le loro complicazioni interiori, le loro debolezze.

Due donne e due uomini molto diversi tra loro, attraverso i cui occhi raccontare la storia, cambiando punto di vista da un capitolo all’altro.

Una volta che mi è stato chiaro chi fossero i quattro protagonisti, mi si è presentata una sequenza iniziale, come in un film dai contorni sfumati che poco alla volta riesci a mettere a fuoco. In questa sequenza Veronica Del Muciaro, la giornalista televisiva d’assalto, entra in un caffè storico nel centro di Suverso, prospera cittadina del nord Italia (immaginaria ma simile a diverse città reali), e ordina una brioche alla crema che per poco non la soffoca mentre si fa un selfie. È la mattina del primo gennaio di quest’anno, il 2020, di cui lei non sa ancora niente ma di cui noi ora sappiamo qualcosa.

Sì, gli scrittori sono diventati parecchio marginali nella nostra società, per lo più ridotti al ruolo di puri intrattenitori commerciali, lagnosi diaristi o pedanti e spesso rancorosi intellettuali. Però io credo che chi scrive romanzi possa e debba ancora svolgere una funzione sociale più viva, da osservatore scomodo che non cerca la protezione rassicurante di una tana politica o letteraria in cui rifugiarsi dopo le sue sortite.

Ci sono tante chiavi in cui si può parlare dello stato desolante della politica italiana e della comunicazione di massa, dell’involuzione dei nostri rapporti personali, del degrado dell’ambiente in cui viviamo, e di mille altre cose. Io ne ho scelta una ironica, perché l’ironia è il modo più efficace di accentuare i contrasti, mettere in luce le cose che non vanno, provocare reazioni. E anche perché volevo divertirmi mentre esploravo fin troppo da vicino argomenti che mi preoccupano profondamente, ridere su temi che potrebbero farmi piangere.

Creare con l’immaginazione mondi migliori di quello che abbiamo davanti agli occhi succede spesso a chi scrive romanzi e a chi li legge, ma è una capacità che tutti potrebbero avere. Perfino i nostri politici, se la smettessero di inventarsi realtà alternative a seconda della convenienza, e imparassero a sognare qualcosa di più grande del loro tornaconto spicciolo, delle loro ambizioni a corto raggio. Io in fondo sono ottimista: credo ancora nel potere dei sogni.

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