Soprattutto in questi giorni di strade desolate e lampioni fiochi, cercare una fonte qualificata per quel che riguarda i fantasmi potrebbe rivelarsi un insuccesso seccante. E non perché sia difficile individuare qualcuno che sostenga di averne visto uno – che assicuri di avervi condiviso un tè in un bar del centro o di aver fatto, in sua compagnia, le ore piccole sul pontile di una nave da crociera – ma perché chiunque sostenga di aver visto un fantasma non sarebbe mai disposto ad accettare, considerata anche la rarità delle loro apparizioni, che un’altra persona vanti con gli ectoplasmi una confidenza maggiore della sua.

Il gusto finissimo del magico

Innanzitutto per ragioni di gelosia e invidie tra i presunti avvistatori, dunque, la fonte più qualificata in quest’ambito, tanto sfuggevole quanto pauroso, è da cercare tra coloro che a quelle anime sconsolate ed errabonde non credono. E per niente credulone, ma con il dono di lasciarsi possedere dal sortilegio prettamente invernale e torinese degli spettri, era Mario Soldati.

Lui che, nel 1977, con il racconto I passi sulla neve, fu l’unico italiano a venire ospitato tra le ventiquattro storie dell’omnibus Mondadori Horror, a fianco di autori come Robert Bloch, Richard Matheson, Shirley Jackson, J.G. Ballard e Ray Bradbury. Lui che, straordinario scrittore con il baffo, il sigaro e il papillon, avrebbe ostentato tutta la snobbery di cui era capace per quei fantasmi che fanno saltare sulla sedia alla stregua di un comune ratto o che si avvolgono in lenzuola stucchevolmente ricamate, ma che al contrario era conoscitore di vecchia data delle evanescenze più timide e fugaci, di quegli spettri che infestano e rendono invivibile il cuore di un uomo prima della sua casa.

Di quelle apparizioni misteriose ne collezionò diverse per poi riunirle in Storie di spettri, la raccolta di venti racconti uscita nel 1962 per Mondadori. L’imbeccata allora arrivò da Niccolò Gallo, editor della collana Narratori italiani, che nella sensibilità di Soldati aveva riconosciuto un «gusto finissimo del magico» e che, esattamente come si sarebbe comportato con un spiritello intravisto di sguincio, desiderava che non andasse perduto.

Come scrive lo stesso Soldati, questo libro convoca «squarci, spettri, specchi, trasparenze», che incontrò nella sua vita sotto forma di capricci del destino, vertigini, incontri notturni e irragionevolezze della memoria.

Di volta in volta è come se Soldati avesse destato qualcosa che, al contrario, non avrebbe dovuto essere risvegliato e che ora lo tormenterà finché lui o farà il callo a quel cruccio, o ne comprenderà l’origine in una stravagante coincidenza, o semplicemente quel fantasma lascerà il passo al suo successore.

Nelle sue pagine tralucono Henry James, Edgar Allan Poe e Stevenson, ma è improbabile che i suoi spettri atterriscano o facciano serrare alla svelta le palpebre, più facile che incuriosiscano e inquietino, come certe magie soffuse non di prestidigitazione ma d’incantesimo, e che nel mezzo dell’apprensione fiorisca delicatamente una tenerezza tanto pudica quanto commovente.

Il profumo degli spiriti 

L’odore dei fantasmi, a fidarsi di Soldati, è esattamente quello del profumo Shocking Schiaparelli, una fragranza lanciata sul mercato nel 1937, che sa d’antico, di muffa, di sartorie e più precisamente dell’interno in camoscio di una vecchia borsetta di Hermès.

Diceva qualcuno che la vita è una lunga convalescenza e che i libri ne sono spesso una consolazione: quale migliore compagnia per una convalescenza, allora, se non quella di storie di angoscia e rimpianto che splendono e turbano come fossero le nostre inconfessate?

Oltre a conoscere il loro profumo più intimo, leggendo Soldati, si imparano altre cose a proposito dei fantasmi: ad esempio che bisogna sempre farsi trovare impreparati alla loro apparizione, perché altrimenti, come ogni altro incontro previsto o lungamente atteso, anche quello con loro rischierebbe di rivelarsi deludente.

E poi si impara che, per uno scettico, il principale privilegio di osservare un fantasma è quello di aver appena vissuto un’esperienza segreta. Nonostante la norma per cui più un fenomeno è improbabile, meno verranno prese le misure adatte per conoscerlo, gli intenditori come Soldati sanno che ai fantasmi va riconosciuta una loro diffidenza e suscettibilità, e che classificare quelle orme discrete, tra brusii notturni e smemoratezze, fa parte, anche questo, del bisogno di comprensione del mondo.

Il volto inquietante di Torino

Oltre il ciglio del magico e del prodigioso, Soldati, ghostbuster timido e malinconico, spesso si trova a Torino, il cui vero volto, soprattutto nell’ora che precede la cena e a maggior ragione di questi tempi, è quello degli spettri che ne abitano le vie cinerine e ortogonali da sempre.

De Chirico, che per sua ammissione fu ispirato da Torino per i dipinti realizzati tra il 1912 e il 1915, definì non per caso questa città «la più profonda, più enigmatica, più inquietante, non d’Italia ma del mondo».

Soldati, raccontando le presenze notturne, le oscurità argentee e le sue ipotesi inverificabili, mostra una mano dolce, sfuggente, affettuosa – come se ad accompagnare l’andatura vorticante e ossessiva dei suoi fantasmi suonassero il pianoforte, i sintetizzatori e gli archi che il compositore americano Basinski avrebbe usato nell’album soffusamente spettrale Melancholia del 2003 – in disaccordo al tratto invece cupo dei pittori Lorenzo Alessandri o Colombotto Rosso, che, in quegli stessi anni e sempre a Torino, illustravano le loro misteriose, luciferine visioni notturne.

Ricordo una storia cinese risalente tra il primo e il secondo secolo a.C., quando l’imperatore Wudi incaricò i migliori pittori del paese di decorare il tempio della Pace e della Felicità: questi dipinsero due giganteschi draghi senza, però, disegnarne gli occhi.

Intervennero allora altri pittori che, invidiosi di quella commissione prestigiosa e con l’intento di marcare la mancanza di talento dei pittori scelti dallo stesso imperatore, decisero di completare il dipinto, aggiungendo gli occhi ai due draghi. Ora cosa accadde quando ai due draghi vennero disegnati gli occhi? Il cielo si rabbuiò, si scatenarono fulmini e baleni, e le due bestie sovrannaturali presero il volo, abbandonando per sempre il tempio.

I mostri, che siano i più schivi e introversi come certi spiriti, o tra i più appariscenti come i draghi, pena la loro spietata ribellione nei confronti degli uomini, non andrebbero ritratti troppo realisticamente. È sempre consigliabile, invece, trascurare un pur minimo dettaglio.

In una delle prime scene della pièce Questi fantasmi!, che Eduardo De Filippo scrisse nel 1945, vediamo Pasquale Lojacono in un distinto palazzo napoletano, risalente alla dominazione spagnola, guardarsi intorno terrorizzato.

Da quel giorno, se rispetterà la strana consuetudine assegnatagli dai proprietari, potrà soggiornare in quelle eleganti stanze senza sborsare una sola lira.

Ciò che gli è richiesto, tutte le mattine, è di fare il giro dei sessantotto balconi del palazzo, nessuno escluso, cantando, ridendo e battendo i tappeti. Il proposito è di attirare l’attenzione dei vicini, in modo che, una volta per tutte, in città si smetta di credere che quel palazzo sia infestato dai fantasmi.

Ugualmente, in coda o in fondo ai racconti di Soldati sembra spesso di scorgere un uomo che, seppure malinconicamente e con qualche incertezza o rimorso, e magari soltanto di sfuggita e gonfio ancora di tormenti, grazie al coraggio o per darsi consolazione canta o ride.

Ed è questa un’altra ragione, oltre alla sua indole diffidente e alla sua nascita torinese, per cui Mario Soldati, soprattutto in questi giorni di spaventi invisibili e città diventati fanstasmeti, sarebbe il più qualificato a parlare di spettri: lo scriveva anche nelle due righe con cui dedicava il libro all’amico Graham Greene, «nella nostra comune preferenza / per creature di carne ed ossa». Agli spettri, Mario Soldati, nonostante tutto, avrebbe sempre preferito gli esseri umani, persino che cantino, ridano o battano i tappeti dai balconi.

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