Ho conosciuto Grazia Cherchi l’anno in cui Fatiche d’amore perdute uscì, nel 1993, ma non ci feci caso.

Non a lei, per la quale sentii immediatamente una misteriosa e profonda familiarità, ma al romanzo, della cui esistenza venni a sapere solo dopo la sua morte, che avvenne un paio d’anni dopo il nostro primo incontro.

Aveva compiuto cinquantotto anni e io non la sentivo da qualche mese finché venni a sapere che se ne era andata per una malattia di cui non aveva mai parlato e che probabilmente aveva trascurato, così come trascurava quasi tutto quello che la riguardava a parte gli amici, gli autori e i libri che amava.

Orfana di quella nuova amica, non sapendo con chi parlare di lei, con chi commemorarla, perché ero giovane e lontana dalla sua schiera di amicizie, corsi a cercare i libri che aveva scritto e che erano citati negli articoli che la ricordavano.

Erano solo due.

Uno di racconti, dal titolo meraviglioso: Basta poco per sentirsi soli, e poi il romanzo Fatiche d’amore perdute. Nei racconti ritrovai tutta la Grazia che avevo conosciuto e anche quella che avevo intuito: generosa, spiritosa, capace di scrivere dialoghi fulminanti, splendidamente amari ma anche sentimentali. Il romanzo invece l’ho cercato a lungo ma sono riuscita a procurarmelo solo qualche anno fa, dopo averne finalmente rintracciata una copia usata.

Ho scritto di Grazia Cherchi e dei suoi due libri nel mio Libri che mi hanno rovinato la vita, e mi pavoneggio all’idea che forse sia servito anche un po’ a stimolare la ristampa di Fatiche d’amore perdute.

Solo ora però mi rendo conto di quanto sia strano che quando la frequentavo non sapessi niente del suo romanzo e dei suoi racconti, forse per mia disattenzione ma più probabilmente per il suo pudore, perché è noto che Grazia Cherchi fosse devota ai libri e ai problemi degli altri molto più che ai suoi.

«Dove finiranno adesso tutti i libri della biblioteca di Grazia?», si chiesero quelli che la conoscevano, sconsolati, quando morì.

Come se i libri che possedeva fossero creature viventi, e lo erano, per quanto appassionatamente li aveva letti, discussi, criticati, adottati. In pochi si chiesero se avesse lasciato da solo qualche amore, perché Grazia Cherchi aveva fama di donna brusca e poco paziente con tutto quello che non fossero i libri e gli autori.

«È più facile la fedeltà agli autori che agli amori. (...) D’altronde, si è sempre detto di me che sono attenta alle piccole cose. Che le grandi non mi si addicano è implicito», fa dire alla sua alter ego, la protagonista di Fatiche d’amore perdute, con una battuta potentemente femminista, anche se lei pretendeva di non aver pazienza per le cose del femminismo.

«Di noi sapeva tutto, quasi tutto; niente, quasi niente noi si sapeva di Lei. In fondo ci faceva comodo pensare a un’intelligenza senza problemi», scrive nella prefazione a Scompartimento per lettori e taciturni il poeta Giovanni Giudici, uno dei suoi amici più assidui, che le aveva dedicato la poesia intitolata Brindisi per Grazia che lei nel romanzo attribuisce al personaggio di Mario e che comincia così:

Altro vino ora c’inebria

Altro cibo oggi ci sazia

Ma il ricordo s’insinedria

Alla tua tavola o Grazia

Di tetrapodie trocaiche

A te salga questa brezza

Nostalgia di rime arcaiche

Spine in te di tenerezza

Quante spine di tenerezza spuntano in Fatiche d’amore perdute.

Nei confronti dei maschi, dei quali scrive: «È fragile e patetico, come tutti gli uomini», ma anche: «Il fatto è che io preferisco la compagnia degli uomini a quella delle donne. Facendo con ciò il mio danno: le donne mi hanno sempre amato meglio e di più».

Nei confronti dei tanti amici scrittori che aiutava e dei quali conosceva vanità e miserie: «“È molto difficile essere allo stesso tempo uno scrittore e un gentiluomo”, ebbe a dire Maugham, uno che se ne intendeva».

Fatiche è fatto di dialoghi brillanti, confidenze, citazioni colte, memorie del passato di un gruppo di amici che per iniziativa della narratrice si rivedono dopo tanti anni per un fine settimana in una villa di campagna che immagino un po’ come quella di Chiamami col tuo nome di Guadagnino e un po’ come quella di mio nonno Dante, il veterinario di Castel San Pietro.

Mentre chiacchierano, bevono, mangiano, litigano e ricordano, capita che la narratrice faccia nomi e cognomi: «Mi ricordo (...) un epigramma scherzoso che mi mandò Fortini quando la rivista (i famosi Quaderni Piacentini che aveva fondato con Fofi e Bellocchio) chiuse infine i battenti. Ve lo cito per pura vanteria:

Non durano eterni

neanche i Quaderni

ma eterna si spazia

la gloria di Grazia.

E poi: «Di lui qualcuno, parafrasando Manzoni, ha detto: “Che grand’uomo, ma che tormento!”». Si diverte persino a criticare il modo di stare a tavola di Bellocchio, Cases, Volponi: «E poi c’è chi, come Fofi, pulisce talmente il piatto con il pane che non occorre più lavarlo». Quando il delizioso e spudorato romanzo «di conversazione» che avete tra le mani uscì lasciò sbalorditi tutti gli amici che vi si trovarono ritratti. Era un libro che nessuno si aspettava da una come Grazia Cherchi e posso solo immaginare quante chiacchiere abbia alimentato negli ambienti intellettuali. Gli amici storici che si videro denudati e amabilmente presi in giro non erano abituati a una Grazia che si mette al centro dell’attenzione e finalmente dice la sua su di loro.

Anche per questo aspetto sorprendente per me Fatiche d’amore perdute è un piccolo capolavoro di humour, scintillante e nostalgico, tenero e dispettoso. Per una volta la grande critica non critica i testi ma le persone. Per lei, libri e persone sono sempre stati la stessa cosa, ma solo in questo romanzo finalmente lo dichiara: giocosa, struggente, irresistibile.

Postfazione a Fatiche d’amore perdute, Minimum fax, 2023

È ancora possibile battersi insieme per qualcosa, magari per l’ultima volta, e avere uno straccio di speranza? E se sì, per che cosa? Grazia, la narratrice autobiografica di questo romanzo, si fa prestare per un weekend una casa di campagna per sottoporre queste domande a nove suoi vecchi amici.

Non si vedono da venticinque anni, dai tempi del Sessantotto. Grazia chiede a ognuno di raccontare gli amori, il lavoro, i successi e gli errori delle loro vite. Con una leggerezza piena di argute e divertite osservazioni, che spesso diventano lapidari aforismi, va così in scena il bilancio di una generazione, delle sue battaglie, la lunga catena dei fallimenti storici, culturali, politici della sinistra italiana.

«Come facevo a prendere tanto sul serio la mia infelicità?», si chiede qualcuno. E qualcun altro chiosa: «Ci hanno portato via il nostro passato e anche le parole per raccontarlo». Bisogna «prendere atto che è sparito, si è perso tutto quello in cui credevamo, che amavamo. Passioni, anzi fatiche d’amore, perdute per sempre!».

Giocando con i generi e le citazioni, Grazia Cherchi riscrive in chiave tutta italiana Il grande freddo di Kasdan, senza nostalgie né indulgenza, ma con l’intelligenza e l’umorismo di una Woody Allen nata in Emilia.

Pubblicato la prima volta nel 1993, pochi mesi prima della discesa in campo di Silvio Berlusconi, Fatiche d’amore perdute è un rendiconto testamentario della fine del secolo, da leggere per poter dire, alla fine, senza rimpianti e quasi con un senso di liberazione, che «adesso il passato è veramente passato».

Beppe Cottafavi

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