Il limite di molte storie che nascono oggi è quello di voler stare al centro: farsi amare rinsaldando convinzioni e prese di posizione già in campo, definite, a cui è facile aderire. Vaghiamo sempre più ripetitivi, timorosi e aggressivi tra schemi narrativi e temi identici, ottimi accessori per il dibattito mediatico e il profitto economico. Il consenso è il perno di tutto ciò che facciamo, anche quando scriviamo, giriamo, immaginiamo.

Per fortuna, qualche volta, ci si imbatte ancora in lavori diversi, e non per posa: racconti che inseguono una manciata di intuizioni spontanee, o proprio di ossessioni, senza curarsi troppo delle regole del gioco vigenti.

Ho pensato anche a questo guardando due film usciti negli ultimi mesi, l’attesissimo Queer di Luca Guadagnino, ispirato all’omonimo romanzo di William S. Burroughs, e Diciannove, esordio alla regia del ventottenne Giovanni Tortorici (prodotto, tra l’altro, proprio dalla Frenesy di Guadagnino). Due lavori molto diversi, per coordinate, estetica e sensibilità, ma accomunati dall’inclinazione a credere ancora che la ricerca creativa – a differenza di cose come la pubblicità, i social e i partiti – abbia a che fare con l’esplorazione dell’esperienza emotiva, opacità ed enigmi compresi.

Le relazioni di Queer

Queer mette in scena una relazione dolente e sospesa, impossibile da catalogare e giudicare in modo netto: siamo agli inizi degli anni Cinquanta e il maturo William Lee (un sorprendente Daniel Craig), dipendente da alcol e sostanze, è spinto dall’illegalità del suo stile di vita a lasciare gli Stati Uniti. In una Città del Messico, rovente e insieme algida, conosce Eugene Allerton, ventenne tanto attraente quanto altero.

Il tema del desiderio non corrisposto si intreccia quindi a quello delle esistenze residuali: il mondo di Queer – volutamente pittorico e artificiale nell’ambientazione, grazie a un grande lavoro di scenografia e fotografia – è quello di maschi non eterosessuali in esilio, che passano il tempo a bere e rimorchiare meccanicamente, in una totale assenza di progettualità.

L’incontro tra Lee ed Allerton potrebbe introdurre qualcosa di diverso, due corpi e due cuori che si toccano davvero, in un deserto impersonale e cinico, ma ciò che accade ha più a che fare con la fuga, l’allucinazione, la nostalgia per ciò che non è mai esistito. Lee e Allerton finiranno in Amazzonia, nella giungla, sulle tracce di una pianta, lo yagé, in grado di attivare le facoltà telepatiche e permettere il controllo dei pensieri altrui, in un sodalizio che fonde amore, opportunismo e disperazione. Chi siamo quando desideriamo? Cosa diventiamo sulla spinta del nostro bisogno d’amore?

Voraci, cannibali, approfittatori, rinunciatari avviliti, disincarnati – figure e temi che tornano spesso nei lavori di Guadagnino, tracciando relazioni sempre fluttuanti, dove meriti e colpe, predatori e prede non si sa bene come collocarli, proprio come avviene a volte nella nostra vita. Sin da piccoli veniamo abituati ad associare il desiderio a una dimensione tersa, luminosa: la fiaba, le stelle, il compleanno. Ma in realtà ogni desiderio, come scrive Emil Cioran, contiene un monaco e un macellaio.

Il desiderio introduce ed estremizza l’elemento del potere, della gerarchia: desiderare qualcuno significa sentirsi bisognoso della sua presenza, delle sue attenzioni, e, a volte, per questo, essere pronti a manipolare, dominare, annientare. Il momento in cui iniziamo a fare davvero i conti con l’ambivalenza dei desideri, nostri e degli altri, è l’adolescenza, e lo sguardo di Guadagnino, nel corso della sua produzione, è tornato spesso a quel tempo della vita pieno di sigilli e iniziazioni, un tempo che, in realtà, non finisce mai del tutto, diventando più una categoria dello spirito che una semplice tappa anagrafica.

Il giovane Allerton si trova in una fase di passaggio tra la fine dell’adolescenza e la vita adulta; Lee è molto più in là con gli anni, ma lo sradicamento della diversità, il distacco dalle strutture sociali convenzionali, lo rendono bloccato in una specie di indefinito vagabondaggio apolide dove la proiezione desiderante rimane il centro di tutto. I due, più che simili o diversi, sembrano speculari: l’esitazione di Allerton può anche essere il timore di sprofondare, negli anni, nella stessa vulnerabilità esibita da Lee, che vive una crisi d’astinenza dopo l’altra e non esita a ridicolizzarsi nel tentativo di sedurlo.

Il mondo di Diciannove

Il protagonista del film autobiografico di Tortorici, Leonardo Gravina (interpretato da Manfredi Marini), invece, come dice il titolo, ha 19 anni e sente di non appartenere a nulla. A nulla, tranne che alla letteratura italiana di alcuni secoli fa, che prova a studiare, nella migliore delle università, scontrandosi subito con la mediocrità del mondo degli adulti ma anche dei coetanei.

Da Palermo va a Londra, poi a Siena, Torino: la fine dell’adolescenza è anche il momento in cui viviamo il passaggio complicato tra l’ideale e le sue traduzioni reali. Che di questa frizione si possa fare un linguaggio nuovo, un immaginario, è il segreto di questo esordio che è insieme molto italiano e molto libero dai binari prevedibili su cui viaggiano le narrazioni – audiovisive ma non solo – da queste parti. Lele è un disadattato o è il mondo attorno a lui a essere sbagliato?

Se, per capire chi siamo, è necessario entrare in connessione con gli altri, il processo per lui si rivela grottesco e forse impossibile. Moralista e fanatico, «simile a un giovane kamikaze dell’Isis», come verrà definito a un certo punto, il protagonista di Diciannove resiste a ciò che non ama della contemporaneità, avvinghiato sempre più stretto ai suoi gusti anacronistici ed elitari. Compresso dall’educazione ma periodicamente attivato dalle sue singolari passioni, scatta e si spegne, a ondate, disegnando un’educazione sentimentale personalissima, tenera e trascinante.

Uno sguardo curioso 

Vizi e virtù personali vanno collocati nel mondo che li stimola o inibisce: per questo, forse, lo sguardo di questi autori rimane più curioso e compassionevole che giudicante. In questo nostro tempo – rigido, polarizzato, e dal bassissimo grado di creatività – c’è bisogno di più storie, più racconti, più film come questi. Storie e film dove rispecchiarsi in modo imprevedibile, parziale, ma forse, alla fine, anche più ampio.

Sia in Queer che in Diciannove compare il tema del desiderio omosessuale, ma questo non genera nulla di già visto, perché le appartenenze si complicano, negano, sovrappongono, esattamente come accade nel mondo interiore di ognuno di noi. In quest’epoca, così ossessionata dai confini e dalle identità rigide, dall’igiene delle relazioni e dalla reputazione, è importante ricordarci dello specifico dell’arte, del cinema e della letteratura, che ha sempre a che fare anche con una specie di inaspettato potere riconciliatorio, di ricomposizione del conflitto.

Nessuna caratteristica identitaria, di per sé, genera un recinto invalicabile: il processo artistico è il luogo in cui poterci permettere di guardare più da vicino gli esseri umani, fino ad ammettere la sostanziale ignoranza rispetto a ciò che davvero siamo stati, siamo e saremo in futuro. Liberandoci dall’ansia del posizionamento e del tornaconto, potremmo finire col renderci conto che c’è qualcosa di molto entusiasmante, salutare e persino politico, autenticamente politico, in questo ammettere che bene e male appaiono e scompaiono, tra margini di mistero e di vuoto, di inconsapevolezza e comune fragilità.

Come Luca Guadagnino ha detto, presentando allo scorso Festival di Venezia, Queer: «Adoro l’idea di vedere le persone e non giudicarle, di assicurarmi che anche la persona peggiore possa essere qualcuno con cui, a un certo punto, mi indentifico. Lee sta sprofondando in quest’ossessione che non riesce ad afferrare e anche Allerton annega in questo rapporto. I due sopravvivono: uno con la separazione e l’altro aumentando le dipendenze. Il ruolo del regista è quello di cercare l’umanità anche nelle zone più oscure, quelle che altrove non frequentiamo».


Oggi, domenica 11 maggio, alle 10.45 per l’evento Le sfide di Domani presso il teatro Parenti di Milano ci sarà la sfida tra cinema e letteratura “Queer e Diciannove. Maestri e opere prime”. Intervengono Giovanni Tortorici, Luca Guadagnino, Jonathan Bazzi, con Giulia Cazzaniga

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