«Che coincidenza! Sono felice di ricevere il tuo messaggio. Sì, verrò domattina in albergo da te, alle 10. Ci basterà un’ora?».

No, un’ora non sarebbe stata sufficiente perché, per raccontare la storia dei suoi ultimi tre mesi, Iryna ha bisogno di tempo. Per trovare le parole – «Da quando è iniziata la guerra ho dimenticato molto del mio inglese», dice appena ci incontriamo la prima volta, ad Amsterdam. In realtà lo parla ancora bene. Il fatto è, piuttosto, che per trasmettere la durezza di ciò che ha vissuto deve accontentarsi di una lingua presa in prestito, non può fare affidamento sulla sua, e le parole prese in prestito spesso non le sembrano sufficienti.

Le parole stesse non le sembrano più il modo migliore di comunicare e forse anche per questo, durante l’intervista, si interrompe spesso e guarda nel vuoto. Forse vorrebbe potersi esprimere attraverso i disegni, come si chiede di fare ai bambini che hanno subìto dei traumi perché è la via più efficace per venire a sapere cosa è capitato loro.

Amsterdam

Iryna Yezhela è ucraina, ha trent’anni, e ogni giorno spera di ricevere un messaggio da suo marito che combatte nell’esercito del loro paese. È a capo del dipartimento di non fiction di Ranok, la principale casa editrice in Ucraina di letteratura educativa e per bambini.

«Ranok vuol dire “mattina”», dice con uno dei rari sorrisi, quasi radioso, che compaiono sul suo viso.

La sede è a Kharkiv, a est, capitale dell’editoria del paese, molto vicina al confine con la Russia e per questo una delle città più colpite dalla guerra. Forse dovrei scrivere che la sede era a Kharkiv. Vorrei chiederglielo quando ci vediamo per la seconda volta, a distanza di un paio di settimane, al Salone del libro di Torino dove è invitata come ospite di gran riguardo e dove modero l’incontro in cui è protagonista, ma la sua frase, detta con forza, «ricostruiremo tutto dopo la guerra» mi è troppo impressa nella mente.

Per sostenere Ranok, a fine aprile Il Castoro ha pubblicato in edizione bilingue, italiano e ucraino, l’albo illustrato Il custode del bosco, i cui proventi vanno a Refugees Welcome Italia. È per via di questo libro che ci siamo conosciute. Dopo che ne avevo parlato nel programma che conduco su Radio2 Rai, l’ufficio stampa del Castoro mi aveva informata dell’arrivo di Iryna al Salone, nel caso avessi potuto darne notizia.

«Sarà molto emozionante averla con noi. È sfollata ad Amsterdam».

Amsterdam, la coincidenza. Ero lì anch’io per qualche giorno. Ho chiesto di poterla incontrare prima di rientrare a Milano - «Sì, verrò domattina in albergo da te, alle 10. Ci basterà un’ora?».

Quasi Europa

Prima della guerra, Iryna e suo marito avevano comprato un’auto nuova e progettavano di comprare anche una casa e di avere un figlio.

«Vorrei ancora dei figli» dice, e poi solo la pace e tornare a casa con il suo gatto Tuna che ha viaggiato insieme a lei fino ad Amsterdam - «quando lo accarezzo, penso che anche mio marito lo accarezzava, è un pezzo di casa».

Le trenta ore di treno da Kharkiv a Leopoli, al confine con la Polonia, sono state «un disastro, era pieno di gente, bambini e donne incinte e cani e gatti. Ho visto delle lacrime sul muso di un cane».

Le faccio una domanda che ritengo innocua, solo per rompere un po’ il ghiaccio: «Da quanto tempo sei qui?».

E invece: «Da un mese. Prima sono stata qualche settimana in Polonia, quindi è un paio di mesi che sono in Europa».

Perciò l’Ucraina non è Europa? «Beh, sai, è quello che crediamo nel paese, che l’Ucraina è quasi Europa ma non ancora del tutto».

Quando è cominciata la guerra il suo lavoro si è fermato, «non sapevamo cosa fare, avevamo paura. Il nostro direttore, in un post sui social network, ha chiesto a tutti di trovare un luogo sicuro in cui stare».

Piangere. È un verbo che Iryna ripete spesso - e per due volte è sull’orlo del pianto durante l’intervista ad Amsterdam. A Torino, invece, i suoi occhi si riempiono di lacrime quando, a metà dell’incontro, senza riflettere sulle conseguenze della domanda, le chiedo «Come ti senti?».

Nelle prime settimane di guerra, quando Iryna e i suoi colleghi avevano la fortuna di riuscire a sentirsi, piangevano. Piangere è stata anche la prima cosa che hanno fatto durante la prima riunione su Zoom. «Pensavamo al futuro, a cose come il Festival Internazionale del Libro a Kiev», che si sarebbe dovuto tenere proprio in questi giorni di maggio e che invece non ci sarà. «Ieri mi ha chiamato il mio capo dicendo che dobbiamo rimetterci al lavoro».

Lo dice senza troppa convinzione e aggiunge, però, che «la creatività ha a che vedere con la libertà», come per scusarsi se finora, dal 24 febbraio, non è stata un granché creativa.

Libri illustrati

I libri sono il suo lavoro, ma da quando è iniziata la guerra Iryna non legge più: «Leggo, ma penso all’Ucraina, mi chiedo cosa starà facendo mio marito. Nemmeno i miei colleghi riescono a leggere e non riescono neanche a creare niente. Una mia collega, però, ha provato a scrivere poesie».

I suoi colleghi sono sparsi tra l’Europa e la quasi Europa, l’Ucraina, ma lontano da Kharkiv. «Stiamo condividendo idee per nuovi libri, speriamo che la creatività vinca».

Prova a immaginare come saranno i libri di Ranok dopo la guerra (perché «per gli ucraini la vita si divide ormai tra prima della guerra e dopo la guerra»), prende tempo: «I bambini hanno visto la guerra. Quando eravamo nei rifugi antiaerei, a Kharkiv, c’erano anche loro e volevano sapere perché eravamo lì e piangevano, insieme a noi».

Smette di parlare, guarda nel vuoto. «Forse dovremmo descrivere le emozioni: come continuare a essere gentili, a essere umani, anche in questa situazione…». Silenzio. Riprende a voce bassa: «Forse non dovremmo usare le parole, dovremmo usare le immagini, forse… pubblicheremo libri illustrati che raccontino questi stati d’animo. Stiamo pensando a libri che parlino dei profughi perché per i bambini è stato molto doloroso lasciare le loro case e la loro terra e separarsi dai padri ed è difficile ricominciare a vivere in città nuove e fare nuove amicizie».

Infatti Il custode del bosco è stato pubblicato pensando soprattutto a loro: «Sì, ho saputo che i bambini italiani lo leggono insieme ai bambini ucraini rifugiati».

Montagne russe

A Torino ringrazia spesso chi è venuto ad ascoltarla «per quello che state facendo per gli ucraini, e grazie soprattutto per accogliere i nostri bambini». E ancora pensando ai piccoli lettori: «Sai, l’anno scorso abbiamo festeggiato trent’anni di indipendenza e per l’occasione abbiamo pubblicato libri sulla storia ucraina perché alcuni pezzi sono scomparsi, a causa dell’Unione sovietica. Erano libri su cos’è l’Ucraina e sulla Seconda guerra mondiale o sulla nostra libertà. I bambini devono conoscere la nostra storia…». Silenzio. E poi: «Un mese dopo l’inizio della guerra un nostro collega di 25 anni è morto in combattimento». Ancora silenzio. «E questa, adesso, è la nostra storia».

Le chiedo se riesce a dormire, a mangiare, come si sente durante le giornate: «Ogni giorno mi sento così» e fa il gesto che mima quelle che in italiano chiamiamo montagne russe e per la prima volta questo modo di dire assume un significato nuovo che mi mette a disagio. Glielo dico. Lei è incredula e vuole sapere perché usiamo questa espressione. Non lo so (lo cercherò su Internet: sembra sia dovuto a un passatempo invernale, piste di ghiaccio per le slitte, diffuse in Russia nell’Ottocento).

Le chiedo quali libri russi ha amato da lettrice. È una domanda che le fa male: «È difficile… Kharkiv è a una ventina di chilometri dal confine russo, l’influenza russa è molto forte e io sono della regione di Donetsk, quindi nella mia famiglia parlavamo anche russo. Ho studiato filologia, perciò sia la letteratura ucraina sia quella russa… Sì… tra i russi mi piacciono i classici, Tolstoj e Dostoevskij, preferisco Tolstoj, è più toccante…». Si interrompe. «È difficile da spiegare, ma non posso pensare a nulla che sia collegato alla Russia».

Le chiedo scusa per il mio nome.

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