San Siro è già una bolgia quando l’uomo e la bambina si accomodano per assistere al concerto dei Gun N’ Roses. Sarà anche uno scontro generazionale, e non potrebbe essere diversamente.

- Mi dici che musica ti piace? - chiede l’uomo.

La bambina sbuffa. - Te l’ho detto, la musica non m’interessa.

- E perché? Neanche i rapper o i trapper?

- Solo come soundtrack di Tik-Tok.

Si guardano amabilmente in cagnesco. L’uomo è del 1974 e ha smesso di credere nel rock quando Kurt Cobain si è sparato; la bambina è del 2011 e dei Måneskin pensa che non siano più quelli di una volta. Forse, per assurdo, è nella disillusione che l’uomo e la bambina potranno trovare un terreno comune.

Intanto un boato li travolge, il concerto è iniziato con “It’s so easy” e non poteva esserci attacco migliore. Il mantra “It’s only rock n’ roll but i like it” rappresenta la vera pietra angolare della filosofia rock. C’è un celebre aforisma del filosofo romeno E.M. Cioran che recita così: “Shakespeare, incontro di una rosa e di una scure”. E’ una definizione perfetta anche per i Guns N’ Roses, e d’altronde il nome della band è abbastanza esplicito in merito. A metà strada tra hard rock e sleaze metal, negli anni ottanta questi ragazzini usciti da un magazzino di Los Angeles battezzato Hellhouse conquistarono il mondo. Erano perfetti per lo spirito del tempo, avevano energia e ruvidezza, ma senza la rabbia folle del punk e neppure il plumbeo nichilismo che sarebbe seguito subito dopo con il grunge. “Appetite for destruction” diventò così l’album perfetto per pogare con leggerezza.

- Sono dei vecchi, - osserva la bambina.

- Sì lo so, ma ti assicuro che Axl Rose è stato un sex symbol. E poi la voce continua a graffiare senza essere fastidiosa. Si inarca e regge alla perfezione l’armonia del pezzo. E’ così dagli anni ottanta.

In realtà l’uomo è d’accordo con la bambina. Questo concerto è una specie di macchina del tempo, confezionato su misura per quelli che attraverso i Guns N’ Roses vogliono tornare giovani. E’ un concerto che guarda al passato, non al futuro. Ci sono le bandane e le magliette iconiche e i jeans strappati e le camicie a scacchi e il cappello a cilindro di Slash. Quando scatta “Paradise city” all’uomo sembra che lo stadio di San Siro si stacchi da terra e cominci a tornare indietro nel tempo, al periodo della sua giovinezza. Quella noia e quelle speranze e quegli azzardi che non sarebbero tornati mai più, che si vivono solo una volta nella vita, cristallizzati per sempre in canzoni perfette come “Don’t cry”.

- Dai dimmi un gruppo che ti piace tra i classici, - insiste l’uomo.

La bambina storce il naso. - I Queen, se proprio devo dirti qualcuno.

- Perché?

- Almeno Bohemian Rhapsody ogni trenta secondi cambia genere.

- Al tempo dell’uscita venne criticata proprio per quel caos.

- Oggi non essere noiosi è un merito.

L’uomo sogna di buttarsi dal secondo anello dello stadio ed essere sorretto dalle braccia tese di quelli che sono sul prato, proprio come se la rock star fosse lui.

- Perché mamma non è qui con noi? - chiede la bambina.

L’uomo chiude gli occhi. - Puoi evitare questa domanda almeno finché non finisce “November rain”?

- “November rain” è la canzone che ti salverebbe se tu fossi tra le grinfie di Vecna?

L’uomo ci pensa seriamente, mentre là sotto tra il pianoforte di Axl e cori struggenti si versa più di una lacrima. No, “November rain” non potrebbe essere la canzone contro i suoi demoni, la via di fuga, la speranza, il varco luminoso che si apre nelle tenebre. “November rain” è Vecna.

- E tra i cantanti di adesso? Ci sarà qualcuno che ti piace, - chiede ancora l’uomo.

- Ti dico di no!

- Sangiovanni? Ultimo? Madame?

La bambina storce di nuovo il naso. - Harry Styles, As it was.

Stavolta è l’uomo a scrollare la testa in segno di netta disapprovazione. - Ma quella è solo la hit del momento, una canzone non significa niente dentro un percorso artistico. Sempre che un percorso artistico ci sia.

La bambina lo guarda come se non lo comprendesse, mentre sul palco un fulminio cambio di luci preannuncia l’attacco inconfondibile di “Sweet Child O’Mine”.

- Dai, ascolta questa, beccati questo riff, è il manifesto di una generazione, - dice l’uomo.

- Sì, la tua, - ribatte con disgusto divertito la bambina.

- Sono cinque minuti e cinquantasette secondi di pura adrenalina.

- Quanto è lunga?

- Cinque minuti e cinquantasette secondi.

- E’ una vita. Un Tik Tok medio dura appena quindici secondi.

Il rock forse non sta tanto bene, ma il business della nostalgia del rock never die. Almeno per il momento.

© Riproduzione riservata