Una settimana fa ho lasciato l’appartamento in cui ho vissuto negli ultimi dieci anni. Ho portato via tutto: elettrodomestici, libri, vestiti e scarpe, quadri.

Due trasportatori hanno iniziato a smontare il guardaroba con le ante scorrevoli in vetro che si incastravano sempre. L’hanno spostato. Dietro c’era un foglio di quaderno strappato in tanti pezzi, sembrava una lettera, inchiostro rosso di penna bic e una grafia inclinata che non riconoscevo. Ho provato a ricomporla, l’inizio diceva: «Cara Rebecca, mi manchi». Chi è Rebecca? Non ne ho idea. Posso dire solo che l’armadio l’avevo comprato io, era stato messo lì dopo il mio arrivo. Su un altro frammento di carta ho letto: «il ricordo di te».

Ho chiuso gli occhi, ho avuto la sensazione di affacciarmi su uno stagno dalla superficie opaca. Acqua scura, ninfee color sangue, zanzare. Ho smesso di leggere. Ho stretto in una mano i coriandoli di lettera e li ho buttati nella spazzatura.

Avevo l’idea che la casa fosse abitata dal fantasma di un amore finito male. C’erano ampie finestre luminose che lasciavo aperte anche di notte, ma l’aria era densa. Accendevo incensi o candele e si spegnevano da soli. Quando mi mettevo a letto, la sera, un tormento invisibile mi sedeva sullo stomaco. Pochi mesi dopo essere andata a viverci, ho divorziato. Pochi litigi, più che altro silenzi. Mio marito ha raccolto le sue cose, ha fatto le valigie ed è andato a stare in un altro quartiere. Mi sono accorta che non erano rimasti spazi vuoti. Sembrava non mancasse nulla, la casa si era riorganizzata naturalmente intorno alla mia solitudine.

Fluidità

Un trasportatore ha tirato su dal tavolino azzurro di metallo la vecchia tv a schermo piatto dai tasti fluidi: premevi un tasto per alzare il volume e cambiava canale, premevi quello per cambiare canale e compariva la scritta “pagina 777 televideo” in sovrimpressione. Tra il tavolino e la base della tv ho visto una piccola pozza d’acqua. Non me l’aspettavo.

Mi sono avvicinata per capire se per caso contenesse minuscoli pesci rossi a mollo sulla superficie blu metallica. Faceva caldo, nei momenti di stanchezza ho la tendenza a credere che ogni cosa sia possibile. «Condensa», ha detto il trasportatore. «Lacrime», ho pensato io, annuendo senza parlare.

Dopo la fine del matrimonio avevo passato un lungo periodo di disinteresse nei confronti del sesso. Il mio corpo era lì ma non lo sentivo. Poi, di punto in bianco, avevo iniziato a fare dei sogni. Erano incontri con persone che non vedevo mai in faccia, mi eccitavano ma si interrompevano sempre troppo presto. Mi svegliavo sudata. Durante il giorno non riuscivo a pensare ad altro. Invece di lavorare guardavo porno su internet, leggevo annunci sui siti di incontri a pagamento, compilavo profili sulle app e li abbandonavo senza trovare il coraggio di scrivere a nessuno.

«Quanto conta per te il sesso da uno a dieci?», è la domanda che rivolgerei a chiunque. Ascolterei la risposta e poi direi: «Sotto il nove non siamo compatibili». Prima ero sempre assonnata e timida, in una casa che trasudava intonaco giallino e tristezza. Un giorno ho inviato un messaggio a un profilo anonimo, mi ha risposto un uomo più giovane, mi ha mandato una foto. Mi piaceva. Ho assaporato la fortuna, ho pensato che era come pescare il biglietto vincente tra migliaia di fregature.

La prima volta sono andata io a casa sua. Il tragitto aveva il gusto di una premonizione, mi illudevo di non correre pericoli e che sarebbe andato tutto bene.

Gelsomini

Era estate anche allora, l’ingresso profumava di cespugli di gelsomino, avevo salito le scale e trovato la porta aperta. La casa era una tana vuota e accogliente, ordinata senza sforzo. Nessuno aveva faticato lì, nessuno aveva pianto. Ci siamo abbracciati, mi sono spogliata senza parlare, lui ha tenuto i vestiti. Questo dettaglio mi piaceva. Desiderare la carne e trovarla inaccessibile, leccare la barriera della stoffa di jeans.

Sono andata via che era notte, sono tornata a casa mia, ho aperto la finestra della cucina per ascoltare il rumore delle foglie che si muovevano fuori, ho avuto la presunzione di parlare con gli spiriti tristi, mi sono convinta di poterli consolare: «Quando lui verrà qui sarà diverso, vedrete», ho detto. «Non posso spiegarlo, lo dovete sentire». Una corrente di formiche elettriche correva su dal pavimento lungo la mia spina dorsale.

Lui ha iniziato a venire a trovarmi sul serio. Parcheggiava il motorino sul marciapiedi sotto le finestre, sempre nello stesso punto. Avevo imparato a distinguere il suono del cavalletto, il rumore delle maglie piatte della catena che toccavano l’asfalto, lo scatto del lucchetto. Ritrovavo un ritmo di respiro normale dopo essere stata tutto il pomeriggio con il battito accelerato, a sfogliare mentalmente un catalogo di colori per ridipingere i muri.

Il bianco ottico mi sembrava sempre la scelta migliore. Se non era tardi saliva a casa, mi baciava, poi mi faceva inginocchiare tenendomi per i capelli. Incarnava il mio ideale di relazione romantica: sentirmi amata e umiliata nello stesso momento. Altrimenti scendevo io, c’era una nuvola di profumo che mi accoglieva a venti passi di distanza.

Era un profumo volgare e carico di erotismo caramelloso, lo portano i ragazzini in giro per la città, se mi capita di sentirlo oggi devo ancora sforzarmi di non viverlo come un segno. All’ora di cena cercavamo insieme un posto dove andare. Era sempre venerdì sera, sempre sushi e vino bianco ghiacciato, dovevo capire che non poteva durare.

La casa aveva iniziato a coltivare la sua vendetta. Quando lui restava a dormire gli scarichi gorgogliavano, si bloccava la caldaia, l’acqua della doccia usciva freddissima. Ripartiva di colpo e l’acqua diventava ustionante. La lavastoviglie perdeva, la lavatrice andava in tilt. Una notte una coppia si è messa a litigare sotto il portone. Lui le aveva preso il telefono, cercava messaggi che attestassero un tradimento, lei era ubriaca, non riusciva a difendersi, gli aveva strappato la maglietta. Lui diceva chiamo la polizia, lei piangeva. Ho pensato di scendere ad aiutarla, portarle dell’acqua e una tazza di caffè lungo. Ma mi sono tappata le orecchie e ho chiesto all’uomo nel mio letto di stringermi più forte.

La mattina dopo è andato via in fretta. Il pavimento, lavato il giorno prima, era già pieno di briciole. Ho riattaccato l’aspirapolvere alla presa e cominciato a pulire da capo per non pensare. I suoi messaggi hanno iniziato a diventare più freddi. Rispondeva in ritardo, un giorno mi ha detto che doveva partire. Non è mai tornato.

Pomeriggio

Per un periodo non ho avuto la forza di fare niente. Stavo sul divano a guardare in televisione i programmi del pomeriggio. Hanno tempi lenti, dilatati, durano ore, sono fatti apposta per farti arrivare a sera senza accorgertene.

Proprio in quei giorni la casa sembrava felice, si nutriva della mia immobilità, aveva una luce diversa, faceva scintillare le superfici. Al tramonto spegnevo la televisione e mi mettevo a guardare fuori dalla finestra fino a che il passaggio di un motorino non riaccendeva la malinconia. Anche il corpo era rimasto acceso.

Un giorno ho invitato su un ragazzo conosciuto al bar. Ho provato a fargli capire cosa mi piaceva, lui ha detto: «Sei malata». La sera stessa ho iniziato a riempire gli scatoloni per il trasloco.

Quando i trasportatori iniziano a portare le prime cose nel furgone metto un dito nella piccola pozza d’acqua sul mobiletto della tv. Assaggio. Sembra salata ma non ci giurerei.

Lascio tutto in un deposito e mi trasferisco in una casa in prestito, curo piante e animali di un’amica in vacanza in cambio di un posto letto, un fornello, una doccia.

Sto sul divano a leggere e ad ascoltare la musica. Qualche volta penso a Rebecca, ho nostalgia dei miei fantasmi. Allora faccio partire un porno sul computer, mi lavo i capelli, mando un messaggio su una chat: «Quanto conta per te il sesso da uno a dieci?».

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