Ci sono artisti il cui destino è accendere loro malgrado conflitti dialettici non tanto per il reale contenuto del loro lavoro ma perché, trattando temi scottanti, rischiano di innescare delle reazioni i cui esiti non sono controllabili. Tali conflitti possono acuirsi con il cambiare della sensibilità sociale.

Ne è un esempio quanto accaduto questa estate intorno a Philip Guston Now, mostra antologica itinerante la cui prima tappa avrebbe dovuto inaugurarsi il 7 giugno alla National Gallery of Art di Washington, per poi spostarsi alla Tate Modern di Londra, al Museum of Fine Arts di Houston e al Museum of Fine Arts di Boston. La preoccupazione che alcuni soggetti delle opere di Guston potessero offendere la sensibilità della comunità nera e suscitare polemiche ha portato i musei coinvolti a posticipare la data di apertura di quattro anni, poi ridotti a due dopo un acceso dibattito. Dietro la decisione dei musei si nasconde però, com’è stato da più parti evidenziato, molto più che le preoccupazioni dichiarate.

A creare preoccupazione è stata la serie di lavori in cui Guston ha raffigurato gli incappucciati del Ku Klux Klan, presentati come compagni di bisboccia che fumano, bevono, girano in macchina per la città con indosso le loro tuniche rattoppate. Guston ne fa delle figure grottesche, fumettistiche, caricaturali.

Modificando il modo in cui le aveva ritratte agli inizi degli anni Trenta, quando era influenzato dall’arte politica dei muralisti messicani, dalla fine degli anni Sessanta l’artista sfida con l’ironia l’odio razziale di questi tristi personaggi. Ne fa la rappresentazione simbolica della banalità del male: gente comune cui basta indossare una divisa o aderire a una setta per diventare mostri.

Il percorso umano di Guston, raccontato dalla figlia Musa Mayer anche nel libro Night studio, edito in Italia da Johan & Levy, è tormentato dalla profondità del male che si nasconde nell’animo umano.

Figlio di profughi ebrei emigrati in Canada per sfuggire ai pogrom di Odessa, poi trasferitisi negli Stati Uniti, Guston ha vissuto sulla propria pelle il pregiudizio antisemita che si era insinuato anche nella società americana degli anni Trenta e Quaranta. Fu probabilmente questo clima a spingerlo a rinunciare nel 1935 al cognome di suo padre, Goldstein, morto suicida nella prima metà degli anni Venti, quando l’artista aveva circa dieci anni.

Forme di autoanalisi

In un dipinto del 1969 intitolato The Studio raffigura un pittore incappucciato davanti al cavalletto con il pennello in mano. La tela che l’uomo col cappuccio sta dipingendo all’interno del quadro lascia pensare che Guston stia ritraendo sé stesso, quasi si trattasse di una forma di autoanalisi. Con la sua figurazione intendeva dichiarare che nessuno può ritenersi innocente se non fa nulla per contrastare la violenza. Inequivocabili anche le sue idee politiche.

Quando nel 1971 Philip Roth pubblicò La nostra gang, romanzo satirico che prendeva di mira Richard Nixon, Guston, amico dello scrittore, aveva a lungo discusso con lui della situazione politica cui il romanzo si ispirava. Quello stesso anno Guston fece di Nixon il protagonista di centinaia di disegni satirici. Nel 1975, dopo lo scandalo Watergate, dipinse anche un quadro intitolato San Clemente, luogo in cui Nixon si era ritirato dopo le dimissioni.

Nel quadro Nixon appare come una caricatura molto simile a quella dei disegni satirici: disgustoso e malconcio, con il naso e le guance cadenti che richiamavano un pene e dei testicoli e con una gamba esageratamente gonfia per via della flebite. Gli inchiostri su carta non furono esposti per molti anni e il quadro fu presentato al pubblico di rado.

Nel 2016, nel clima incattivito dalla presenza di Donald Trump nella scena politica, le vignette di Guston su Nixon suscitarono particolare interesse quando furono esposte alla galleria Hauser & Wirth di New York, nell’ambito di una mostra antologica che presentava anche i dipinti astratti degli anni cinquanta e sessanta. La casa editrice collegata alla galleria ha così deciso di dedicare loro un libro, Nixon Drawings 1971 & 1975, curato dalla figlia Musa Mayer e da Sally Radic. L’attenzione ricevuta si deve al fatto che, ancora oggi, questi inchiostri hanno il sapore di una denuncia nei confronti di chi esercita il potere con spregiudicatezza.

Dopo l’omicidio di Floyd

Tornando a Philip Guston Now: a catalogo stampato, dopo un primo rinvio imposto dalle misure precauzionali della National Gallery of Art di Washington per contrastare il diffondersi del Coronavirus, si è deciso di spostare al 4 febbraio 2021 la prima data della mostra, da tenersi non più a Washington ma alla Tate di Londra, che in origine doveva essere la terza tappa.

Il 21 settembre però, dopo gli strascichi degli eventi di Minneapolis del 25 maggio, che hanno visto rimbalzare sul web, nelle tv e sulla stampa le immagini dell’afroamericano George Floyd immobilizzato e soffocato da un poliziotto bianco, un comunicato congiunto delle quattro istituzioni museali ha annunciato che la mostra sarebbe stata ulteriormente rinviata di quattro anni, in modo da poter essere proposta «in un momento in cui pensiamo che il potente messaggio di giustizia razziale e sociale al centro del lavoro di Philip Guston possa essere più chiaramente interpretato». Lo stesso comunicato chiariva che tale decisione derivava anche dal fatto che le condizioni della società sono molto cambiate rispetto a quando il progetto era stato avviato, cinque anni prima. Di lì a poco è apparso a tutti chiaro che era stato inopportuno affidare a quattro curatori bianchi una mostra di un artista bianco che affronta problemi razziali. Dopo aver svolto un sondaggio anche tra il proprio personale, comprese le guide che avrebbero dovuto accogliere i visitatori, i responsabili dei musei hanno deciso di rivedere il progetto espositivo, aggiungere un curatore afroamericano e preparare gli addetti alla sicurezza, in gran numero neri.

Il 24 settembre, in un articolo apparso sul New York Times a firma Julia Jacobs, il primo di una lunga serie che ha visto alternarsi numerosi critici su diverse testate, Darby English, professore di storia dell’arte all’Università di Chicago e curatore associato al Museum of Modern Art di New York, ha definito la decisione di posticipare la mostra «vigliacca e paternalistica, un insulto tanto all’arte quanto al pubblico».

A dare ulteriore spinta alla polemica è stata una lettera aperta pubblicata il 30 settembre dal Brooklyn Rail. Secondo gli oltre duemila e seicento firmatari la scelta di posticipare la mostra equivale da parte dei musei a dichiarare il proprio fallimento nell’affrontare «le sfide che le rinnovate istanze di giustizia sociale emerse negli ultimi cinque anni comportano». E a rincarare la dose: «Le persone che dirigono le nostre grandi istituzioni non vogliono problemi. Temono le polemiche. Non hanno fiducia nell’intelligenza del loro pubblico e si rendono conto che oggi ricordare la supremazia dei bianchi ai visitatori dei musei non significa solo parlar loro del passato o di eventi che si svolgono altrove. Significa anche sollevare domande imbarazzanti sui musei stessi Se pensano che in quattro anni “tutto questo scomparirà” si sbagliano».

Il ruolo di Schwabsky

A giocare un ruolo fondamentale nella polemica è stato il critico Barry Schwabsky. È stato lui a scrivere la bozza della lettera apparsa sul Brooklyn Rail, coinvolgendo nella stesura definitiva importanti personaggi del mondo dell’arte, tra cui David Carrier, Thierry de Duve, Joachim Pissarro, Adrian Piper. Schwabsky ha inoltre ribadito la sua posizione sulla rivista The Nation, di cui è il critico.

È grazie alla polemica se alla fine la mostra non sarà posticipata di quattro anni, ma di due. «È importante notare che persone che non si troverebbero d’accordo su nient’altro concordano sul contenuto della lettera aperta», mi dice Schwabsky. «Pensaci: Wayne Thiebaud, Laurie Anderson, Martha Rosler, Julian Schnabel, Hans Haacke, Vija Celmins... cosa hanno in comune questi artisti all’infuori della fede nel potere dell’arte?». E aggiunge: «I nostri musei sono sempre più controllati da burocrati che temono il potere dell’arte. Come ho scritto su The Nation dopo la pubblicazione della lettera, i musei non hanno mai ammesso di essere dalla parte del torto, e non hanno mai risposto in modo diretto alla lettera, nonostante così tanti artisti importanti l’avessero firmata. Ma di fatto hanno rivisto la loro decisione. Quindi sento che il nostro sforzo ha avuto un effetto positivo». Il «caso Guston» ha costretto la scena dell’arte americana (e non solo) a interrogarsi su quale debba essere il ruolo dei musei. È preoccupante che importanti istituzioni culturali si autocensurino.

Le varie posizioni pro o contro l’opportunità di rimandare la mostra non hanno messo in dubbio il valore dell’opera di Guston e hanno finito per puntare il dito contro gli stessi musei, che si sono resi vulnerabili agli attacchi proprio per non aver attuato al loro interno quella politica di inclusione delle minoranze che da tempo il mondo della cultura sostiene di aver abbracciato.

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