5 settembre, 51 anni fa. Un gruppo palestinese mette in atto uno degli attentati terroristici più eclatanti prima di quello contro le Torri gemelle. Sono le 4.30 del mattino quando un commando di “Settembre nero” irrompe nel villaggio olimpico, rapisce, tortura e assassina i membri della squadra israeliana.

A 24 ore dall’attacco, tutti gli atleti israeliani sono stati massacrati; 5 dei 9 terroristi sono morti e un poliziotto ha perso la vita nel fallimentare tentativo di liberare gli ostaggi. Il messaggio è chiaro: la questione palestinese non è più un solo affare confinato nel lontano medio oriente. Se il mondo non si interesserà alla loro causa – pensano alcune frange dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina – sarà loro obiettivo attirare l’attenzione mondiale.

Ma è una lotta impari. Dal 1948, tre conflitti armati tra Israele e i Paesi mediorientali hanno sconvolto la regione. I palestinesi non hanno una patria, godono di supporti volatili e spesso strumentali, rischiano di restare soffocati in una lotta tra Stati. Con un ragionamento certo eticamente discutibile ma politicamente razionale, utilizzano l’esportazione del terrorismo fuori dal quadrante mediorientale per riequilibrare la situazione.

Il terrorismo può colpire l’Europa. Può colpire il cuore dell’Europa. Il governo tedesco-occidentale, guidato dal socialdemocratico Willy Brandt, è sotto accusa per aver gestito malamente la crisi. È accusato di aver temporeggiato con i terroristi, di non aver messo in atto una prevenzione efficace per proteggere i cittadini israeliani in visita ad un’occasione di pace tra i popoli.

E peggio. Shaul Ladany, un membro della squadra olimpica scampato alla strage, commenta pubblicamente: «Perché rischiare i propri fegati per qualche sporco ebreo?». Sono passati vent’anni dagli orrori nazisti. La memoria brucia ancora e le domande si moltiplicano.

La Germania non ha voluto prevenire l’attentato? Perché ha respinto l’aiuto offerto dalle forze speciali israeliane? Ha lasciato fare al commando, de facto consentendo l’eccidio?

5 settembre, 1 anno fa

Solo nel 2022, il Presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier ha firmato un accordo con il suo omologo israeliano, Isaac Herzog, prevedendo un risarcimento complessivo di 28 milioni di euro per i familiari delle vittime e l’istituzione di una commissione tedesco-israeliana per esaminare l’accaduto.

Lo stesso Steinmeier ha definito una "vergogna" che lo Stato tedesco abbia lasciato trascorrere cinque decenni prima di raggiungere un accordo con le famiglie degli atleti israeliani massacrati ai Giochi olimpici di Monaco nel 1972.

Ci sono voluti 50 anni. Ma i tedeschi sapevano? Quali responsabilità hanno avuto? Nel 2023, siamo in grado di sciogliere questo doloroso nodo della storia globale.

Gennaio 1972, 51 anni fa

Mancano 6 mesi all’attentato di Monaco. Il terrorismo arabo-palestinese è già sceso in campo nel Vecchio Continente. Si è specializzato nel dirottamento degli aerei, da poco divenuti mezzo di comunicazione di massa. Nel 1968, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina dirotta il primo aereo, un volo Roma-Tel Aviv costretto ad atterrare ad Algeri. Due anni dopo, è sempre il Fplp che compie un attentato sensazionale, dirottando – quasi contemporaneamente – quattro diversi aerei. Ne fanno atterrare tre a Dawson’s Field, nella Giordania Settentrionale. Dopo aver fatto sbarcare i passeggeri, i terroristi danno fuoco agli aeroplani in un’azione dimostrativa che attira l’attenzione dei media di tutto il mondo.

È evidente che non si può più sottostimare la minaccia. È una intimidazione che valica le frontiere e così la risposta non può che essere internazionale. I paesi europei fondano il Club di Berna, un network dei servizi segreti dei paesi della Comunità europea. Lo scopo è ben preciso: prevenire la violenza politica che emerge dalla protesta globale del 1968.

Da dove escono questi terroristi? – si chiedono i rappresentanti dei paesi europei del Club di Berna. Le Olimpiadi di Monaco del 1972 si avvicinano, e aumentano le segnalazioni che indicano l’incontro dei giochi internazionali come un possibile target per le organizzazioni terroristiche.

Già, ma quali?

La confusione è totale. Gli esperti della sicurezza nazionale tentennano. Un documento dimostra che sanno che le Olimpiadi saranno oggetto di “minacce e violazioni alla sicurezza”, di “possibili attentati (o rapimenti) su ospiti eminenti”. Sanno che questi gruppi hanno “notevole esperienza nell’uso delle armi e di esplosivi”.

Sei mesi prima della strage di Monaco, i servizi segreti dell’Europa occidentale sanno che alle Olimpiadi succederà qualcosa. Che succederà un attentato.

Ma sono incerti su quale mano sarà ad attuarlo. Così stilano un report per definire cosa fare. Pensano agli “anarchici”, responsabili da inizio secolo di attacchi contro Re, Regine e Presidenti su vasta scala, poi ai “rivoluzionari maoisti”, passano alle “Black Panthers”, si interrogano sui “circoli clandestini croati”, su quelli “irlandesi” e, solo dopo averli nominati tutti – i movimenti terroristici degli anni Settanta, certo non poco numerosi – pensano che (forse) i “palestinesi” avrebbero potuto essere i protagonisti.

AP

Pregiudizio

La documentazione archivistica mostra che servizi segreti occidentali conoscevano la minaccia.

Ma non riuscirono a comprenderne la valenza e ad orientare in modo consapevole la prevenzione.

Non fu dunque connivenza; non fu una volontaria sottovalutazione del pericolo; non fu nemmeno una truce laissez-faire nei confronti della squadra olimpica israeliana, dettato da una colpevole e voluta negligenza nei confronti delle minacce rivolte al team israeliano rispetto a quelli degli altri Paesi.

Fu ignoranza. Fu incapacità. E fu pregiudizio. L’ignoranza fu dettata dalla mancata conoscenza del fenomeno. Il terrorismo arabo-palestinese era un problema relativamente nuovo, compreso ad un livello raffinato solo dai servizi segreti israeliani.

Tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, i servizi segreti europei non avevano piena contezza del terrorismo internazionale, non ne percepivano le complessità, non ne comprendevano i rivoli politici specifici. Era un fenomeno transnazionale, quando il mondo della politica parlava il linguaggio dello scontro tra le due superpotenze, il linguaggio proprio della Guerra fredda.

Da qui derivava il condizionamento, più o meno strumentale.

Le autorità europee di sicurezza furono fortemente condizionate dall’immaginario un «grande vecchio» al Cremlino che muoveva i fili del terrorismo arabo-palestinese. Che Mosca e le autorità del blocco comunista avessero i propri interessi nel fomentare la sovversione nell’Europa occidentale poteva certamente essere; ciò era tuttavia differente dal ritenere che il Cremlino muovesse i fili di una rete internazionale del terrore. Così, ritenendo che fossero eterodiretti da Mosca, i movimenti sovversivi, diversi e con proprie specificità, finivano per assomigliarsi tutti agli occhi degli osservatori europei.

E, infine, il pregiudizio. Il pregiudizio soprattutto nei confronti dei servizi segreti israeliani che erano indiscutibilmente i più fini conoscitori del fenomeno, essendo stati oggetto di attacchi ripetuti sul proprio territorio e contro obiettivi israeliani e ebraici anche su suoli stranieri.

Sospetto

Nelle reti dei servizi segreti, la maggioranza delle notizie su possibili attentati di matrice arabo-palestinese provenivano da Tel Aviv. Ma gli europei spesso manifestavano il sospetto che queste notizie fossero “gonfiate” ad arte. E temevano che l’Europa potesse diventare il campo di battaglia di un conflitto che, in ultima analisi, non gli apparteneva.

Furono dunque l’ignoranza, l’incapacità e il pregiudizio a impedire l’eccidio delle Olimpiadi di Monaco. Una storia destinata a ripetersi diverse volte nell’arco di un ventennio con attentati contro stazioni, aeroporti, caffè in tutti i principali paesi europei.

Vicende dimenticate a cui varrebbe la pena ripensare. Perché la “diplomazia del terrore”, l’uso del terrorismo per condizionare la politica estera degli Stati e le relazioni internazionali, non appartiene alla “Storia”. È storia di oggi.

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