Avevo sette anni, una scarsa confidenza con il mondo esterno e nessun interesse per i film e i fumetti dei supereroi in generale, quando al cinema è arrivato Spider-Man. Quello interpretato da Tobey Maguire e diretto da Sam Raimi, quello che ha lanciato le carriere di Kirsten Dunst e di James Franco, quello con i vincitori del premio Oscar J. K. Simmons e Octavia Spencer e il quattro volte candidato Willem Dafoe. Quello, proprio quello.

In quel periodo i miei genitori portavano me e mio fratello al cinema ogni giovedì – e se oggi sono un cinefilo dev’essere anche per questo: grazie, mamma e papà. Andavamo a un multisala dietro casa, posto a cui sono molto affezionato, i miei sceglievano un film che potesse piacere a tutti e, popcorn grandi alla mano, c’incuneavamo nelle poltroncine rosse.

Era un giovedì di metà giugno 2002, quello in cui optarono per Spider-Man. Non credo che la faccenda li appassionasse granché, solo che mio padre da ragazzino di fumetti ne aveva macinati parecchi, Tex e Diabolik, e penso volesse instillare in noi figli lo stesso interesse.

Guardammo Spider-Man, quindi, e ne rimasi folgorato.

Essere Spider-Man

Volava, quel ragazzo infagottato nel suo costume rosso e blu volava! Tra i palazzi di New York, aggrappato alle sue ragnatele, dondolava leggero e felice e libero. Arrestava i criminali, aiutava le persone in pericolo, lottava contro cattivi che, pur sembrando più forti, alla fine era capace di sconfiggere.

Era un supereroe, ecco tutto, ma ai miei occhi di bambino fu incredibile. Così incredibile che per i mesi avvenire, almeno fino al mio ottavo compleanno, febbraio dell’anno dopo, mi vestii da Spider-Man praticamente tutti i giorni.

Non me la sto inventando, questa – e la cosa, tra l’altro, mi imbarazza un po’: in fondo non ero poi così piccolo, ma tant’è.

Mi tiravo fuori dal letto, mi sfilavo il pigiama e, sopra maglia e jeans, mi imbustavo nel costume di Spider-Man; vestito che, pochi giorni dopo aver visto il film, avevo preteso, urla e pianti e tutto il corredo, immagino, dai miei genitori. Così conciato andavo dappertutto. Al pranzo domenicale dai nonni, al grest dove i miei mi parcheggiavano a luglio, al supermercato, a casa degli amici per compiti e merenda.

Il solo posto dove mi era proibito indossarlo era la scuola, le maestre erano state chiare in proposito, ma io lo mettevo sotto la divisa e fregavo il sistema. In certi negozi che bazzicavo assai spesso con mia madre, le commesse quando entravo trillavano cose del genere: «Oh, è arrivato l’Uomo ragno!». E io, ne ho dei ricordi netti, ero felice: ero Spider-Man, ero riconosciuto come tale.

Ai miei la cosa all’inizio divertì molto. Dovevo essere buffo, credo: un pupetto magrolino sempre travestito da supereroe. Poi però, dopo mesi di risate pazienti e probabilmente un po’ confuse, se ne dovettero preoccupare e iniziarono a chiedermi di toglierlo, quel costume. Io, che avevo ormai otto anni, o che comunque mi ci stavo avvicinando, e che la pressione degli altri la soffrivo già come ne avessi avuti ottanta, obbedii. Addio, costume.

Tornai a essere Mattia, la qual cosa non auguro neanche al mio peggior nemico, ma di Spider-Man non mi dimenticai. All’uscita da scuola, elementari e medie, capitava spesso che mi venisse a pescare mio nonno e lui, un giorno a settimana, mi allungava due euro indicandomi l’edicola lì di fronte. Era un posto enorme, quell’edicola, piena di scaffali che odoravano di plastica calda di sole e carta stampata.

Io ci entravo, i miei due euro nel pugno sudaticcio e zozzo di colori a spirito, e tutte le volte compravo un fumetto di Spider-Man. Così, pur essendo tornato alla mia divisa d’ordinanza da bambino comune, da quel supereroe non mi separai mai del tutto.

Universi paralleli

E arriviamo a oggi.

Di anni ne ho ventisei e, pure se non giro più infilato nel mio costume – che, l’ho scoperto recentemente, riposa in un armadio di casa – pochi giorni fa sono stato al cinema con lo stesso spirito di vent’anni fa per vedere l’ultimo film di Spider-Man.

No way home è un piccolo gioiello. Lo dico da cinefilo, non da esperto, che sia chiaro, e da semplice appassionato l’ho trovato estremamente godibile e molto ben scritto e girato e recitato.

Tom Holland è il nuovo Peter Parker, è il nuovo Spider-Man – quello dell’Universo cinematico Marvel che negli ultimi anni la fa da padrone al botteghino e che ha in scuderia tutti i supereroi della casa editrice omonima del 1939. Con lui, a interpretare M. J., la fidanzata del supereroe che diventa prima aiutante e poi eroina lei stessa, Zendaya – attrice e cantante strepitosa. A dirigerli c’è Jon Watts, che aveva già firmato i primi due film su Spider-Man di questa nuova fase Marvel.

In No way home funziona tutto, la pellicola scorre senza intoppi e le due ore e trenta, di cui è composta, scivolano senza appesantire gli occhi. Merito della scrittura, della regia, della recitazione. Merito di un universo supereroistico, quello della Marvel, che si espande a ritmo serrato senza mai lasciarsi dietro alcun dettaglio.

Merito però anche del ritorno di quei personaggi, interpretati dagli stessi attori del passato, che hanno popolato i precedenti film su Spider-Man; così ritroviamo Goblin di Willem Dafoe, Electro di Jamie Foxx, Doctor Octopus di Alfred Maolina.

No way home, infatti, si basa sull’esistenza di infiniti universi paralleli tra loro che, per via un incantesimo malriuscito, collidono e trasportano in uno stesso i protagonisti dei vecchi film; abitanti degli altri universi, s’intende.

Indole umana

Alla spicciola, e senza fare spoiler che al giorno d’oggi si rischia pure di andare incontro a una querela, la trama è bene o male questa. Quel che però colpisce di No way home, così come della gran parte dei film Marvel, è quel che sta dietro la storia del racconto.

Il Peter Parker di No way home è un ragazzo come tanti, un liceale che si affaccia sul mondo adulto e che deve vedersela con tutti i dubbi e le paturnie e le paure di un quasi diciottenne. C’è la scelta dell’università, il rapporto con la famiglia, una relazione appena iniziata.

In questo nuovo film su Spider-Man Peter Parker di super non ha che il corpo: l’indole è umana. È labile, ammette errori. Ed è questa caducità, è l’ipotesi che Spider-Man possa fallire, a farcelo sentire vicino. Non soltanto, infatti, questi nuovi supereroi offrono una via di fuga da un mondo che ci respinge o, se va bene, ci ignora, ma sembrerebbero volerci dire che pure loro, che sono speciali, hanno problemi simili ai nostri.

Sembrerebbero volerci dire che la paura, quella di perdere chi amiamo o anche solo di fallire una missione, un compito, è salutare: il coraggio non è l’assenza di paura, ma la consapevolezza che qualcosa è più importante della paura stessa, ha detto qualcuno una volta.

Che molti traumi, le esperienze che ci si sono incagliate dentro come materiale di scarto di cui non riusciamo a liberarci, non sono zavorre che ci appesantiscono quanto piuttosto carburante con cui divampare e brillare. Che anche se molto spesso ci sentiamo nel giusto nel posto sbagliato non possiamo far altro che fidarci di noi stessi, del nostro istinto. Che sono le persone che abbiamo accanto, che amiamo e proteggiamo e che a loro volta ci proteggono, il nostro tesoro più grande.

I supereroi sembrerebbero volerci dire un mucchio di cose, ecco. Tutte appena bisbigliate, coperte dal frastuono di battaglie epiche, ma sempre lì per noi. E sono questi bisbigli le ragioni profonde, quelle aldilà dell’azione e delle lotte a colpi di ragnatele e laser e scudi magici, per cui i supereroi ci piacciono tanto. Sono effimeri, proprio come noi, ma la loro fragilità la mettono da parte in funzione di qualcosa di più alto, usando sempre le loro qualità migliori.

Ecco perché all’età di sette anni mi sono infilato in quel mio costume di Spider-Man per dei mesi interi: non cercavo un nascondiglio dalla vita, ma un mezzo con cui affrontarla.

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