I miei primi 28 anni sono stati talmente privi di avversità che quando cammino per la strada ho la certezza che, prima o poi, un pianoforte mi cadrà sulla testa. Non ho nessuna cognizione del dolore, né fisico né emotivo: non mi sono mai rotta niente, non sono mai stata mollata, i miei nonni sono ancora tutti vivi.

A cercare proprio il pelo nell’uovo citerei il divorzio dei miei genitori, ma la verità è che ho smesso di considerarlo una sventura intorno ai sette anni. Sono nata nel ’92, i miei si sono sposati nel ’93, nel ’94 era tutto finito. Se ci sono stati momenti strazianti da Kramer contro Kramer – padre che va in panne per preparare un toast che saprebbe fare anche una scimmia, madre che mi guarda malinconica da lontano mentre entro a scuola – io non me li ricordo.

L’intrattenimento, almeno dal mio punto di vista, fu moderato e sottotono e raggiunse il suo apice il giorno in cui mio padre vide l’avvocato di mia madre al Tg3, portato via in manette dai carabinieri. Non esattamente Laura Dern in Storia di un matrimonio.

Ho passato qualche anno a sperare che tornassero insieme, ma era un desiderio irrazionale e malriposto, partorito da un cervello non ancora del tutto sviluppato e formulato in gran parte durante la visione ossessiva di Genitori in trappola, film fondamentale del 1998 in cui Lindsay Lohan interpreta due gemelle separate alla nascita che si ritrovano per caso durante un’estate in campeggio. Una è cresciuta in California con il padre, l’altra a Londra con la madre e, quando scoprono l’una l’esistenza dell’altra, tramano per il ricongiungimento dei genitori, che in realtà non hanno mai smesso di amarsi.

Un intreccio tanto entusiasmante per una bambina di sei anni quanto inquietante adesso: è evidente che l’unico motivo per cui quei due dovrebbero stare insieme è che non c’è una persona al mondo più scema di loro. Quale psicopatico penserebbe che spartirsi i figli sia una buona idea?

A scuola non ero l’unica figlia di divorziati. Alle elementari eravamo pochi pionieri, con storie famigliari più o meno drammatiche (la mia, come al solito, la meno drammatica di tutte, realizzo oggi mentre mi guardo le spalle da pianoforti volanti). Alle medie ci eravamo moltiplicati e al liceo la questione non era neanche più degna di essere menzionata.

Mi immagino che nel frattempo, in una scuola dei giorni nostri, i veri emarginati siano quelli che provengono da una famiglia tradizionale. Il che ha senso se si considera che l’impennata dei divorzi in Italia, iniziata nel ’95, non si è più fermata. Si potrebbe dire che è il dramma della mia generazione, se non facesse ridere chiamarlo così.

Non so che impatto reale abbia avuto sulle nostre personalità, ma sono certa che non è stato peggiore di quello che avrebbe avuto crescere con due persone che si tollerano a fatica. Forse siamo solo più polarizzati tra chi ha bisogno di stabilità nella coppia e chi invece rifiuta il concetto di monogamia, e in generale mi sembra che prendiamo il matrimonio molto meno sul serio.

Ci sposiamo di meno, anche se la sensazione è di passare metà della vita a comprare regali di nozze controvoglia per persone a cui sotto sotto non vogliamo neanche così bene e l’altra metà ad aspettare che il dj metta YMCA, per potercene finalmente andare a casa. Quindi hasta siempre la legge sul divorzio (50 anni appena compiuti, mai abbastanza) che va apprezzata per molti motivi, non ultimo per averci dato un’epica condivisa: possiamo quasi tutti lamentarci della stessa cosa.

Siamo fatti così, potremmo dire citando un altro caposaldo della nostra infanzia. Inetti, secondo Bret Easton Ellis. Delicatissimi, direbbe Christian De Sica. Siamo cresciuti con madri e padri afflitti dal senso di colpa della famiglia spaccata, che hanno rinnegato i loro genitori normativi e ci hanno ripetuto per anni che potevamo essere tutto. Artisti, geni, amministratori delegati. Persino divorziati.

Eroicamente sdraiati sul divano

Non accettiamo niente di meno. Ma a quali sfide ci ha sottoposto davvero la nostra epoca? Che ostacoli abbiamo dovuto superare? Contro chi dobbiamo brandire i nostri bastoncini di palo santo? Quelli di noi che non hanno neanche assistito alle liti sugli assegni di mantenimento, ammorberanno i loro nipoti con i racconti di questa pandemia, che ci ha visti eroicamente sdraiati per mesi sul divano nell’epoca d’oro delle consegne a domicilio, mentre comunque a morire erano quegli altri, gli stessi che si erano già sfangati una guerra e un paio di crisi economiche.

Sarà anche per questa totale mancanza di conflitto che siamo diventati la generazione più fragile e polemica di sempre? Baccagliamo in continuazione, rivendichiamo battaglie che non ci appartengono perché siamo ineducati alla sofferenza, che per reazione fabbrichiamo, un concetto ben spiegato in termini tricologici dal mio parrucchiere: se ti lavi i capelli troppo spesso, la cute produrrà sempre più sebo per riequilibrare i grassi rimossi e alla fine ti ritroverai con i capelli unti, bisognosi di altri lavaggi.

Io purtroppo non sono a mio agio neanche in questa modalità. Certo, piango davanti al telegiornale un giorno sì e uno no e cerco timidamente di educare gli over 50 della mia famiglia sul fatto che “checca” non si può più dire – non importa quanto tu sia di sinistra o quante ricariche del telefono mi abbia pagato – ma l’opinione più controversa che abbia mai avuto è che non mi piace il tartufo, quindi non mi ritrovo facilmente nel ruolo della millennial castigatrice. Forse sono stata troppo fortunata anche per questo, forse non ho sofferto abbastanza.

Qualche mese fa ho letto L’educazione di Tara Westover, un bel memoir in cui l’autrice (che è nata nel 1986, ma di lamentarsi ne avrebbe ben donde) racconta cosa abbia significato crescere in una famiglia di mormoni integralisti. C’è un fratello violento, una discarica in cui lei e i fratelli lavorano fin da ragazzini, un padre che rifiuta gli ospedali tradizionali anche in punto di morte. Una vita infernale.

Eppure mentre lo leggevo mi scoprivo quasi invidiosa delle sue sventure, così concrete, fondanti, degne di essere raccontate. Intanto ripensavo all’unica sculacciata che ho preso nella mia vita (letteralmente una sola): avevo quattro anni e mio padre mi chiamò un’ora dopo per chiedermi scusa.

Ventiquattro anni dopo sono praticamente un feto con la partita iva, del tutto impreparata alle sfide dell’età adulta. Quindi cammino con circospezione e guardo bene prima di attraversare la strada. Un pianoforte dal cielo prima o poi arriva.

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