Il 5 gennaio 1984 il giornalista Pippo Fava è stato ucciso da Cosa Nostra a Catania. Sono passati 37 anni: «Dire giornalista antimafia è un’etichetta ridicola, se tu hai la responsabilità di un giornale negli anni ‘70 e ‘80, scrivi di mafia» dice il figlio Claudio, presidente della commissione Antimafia all’Assemblea regionale siciliana. Anche quest’anno verrà ricordato, via Internet, come la pandemia ha costretto a fare. Con un evento in streaming, un webinar dal titolo “Triste, solitario y final: dove va il giornalismo in Sicilia?”, e un flashmob virtuale: l’invito a fare una foto a un biglietto con una frase del giornalista da condividere sui social network. «Non parleremo della sua morte, parleremo di giornalismo al Sud» spiega Claudio.

Fava cominciò a scrivere di mafia all’Espresso Sera, dove era arrivato da capocronista nel 1959 per poi rompere con l’editore, Mario Ciancio Sanfilippo, nel 1978. Nel 1980 passò a dirigere il Giornale del Sud ma, dopo un attentato fallito alla sede del quotidiano, rimaneva senza lavoro nel 1981: gli editori ancora una volta non lo volevano. Nel 1982 ha fondato la rivista I Siciliani. Piero Maenza, uno dei giornalisti che hanno lavorato all’Espresso Sera con lui lo racconta così: «Faceva veramente il giornalista. Quando vedeva “le cose storte” le scriveva».

L’Espresso Sera

Pippo Fava è passato alla storia con il suo ultimo periodo di lavoro, ma la sua lungimiranza giornalistica era nata molto prima e cresciuta in mezzo ai fatti di cronaca nera tra il 1959 e il 1978. Entrato all’Espresso Sera come capo cronache alla fine degli anni Cinquanta, ben prima che a Catania si parlasse di mafia, aveva capito che cosa stava succedendo, con quei morti ammazzati che crescevano ogni giorno. Attorno a lui aveva raccolto un gruppo di giovani: «Di fatto era lui che dirigeva», racconta il figlio.

L’Espresso Sera era un giornale di quelli che escono il pomeriggio, un tipo di pubblicazione che per la sua peculiarità copriva solo cronaca, spettacolo e sport. Giuseppe Vecchio, oggi direttore di una testata diocesana, passato poi a la Sicilia e all’Avvenire, era uno dei carusi che lavoravano con lui: «Fava è stato raccontato solo negli ultimi anni della sua carriera. Tante volte da direttore dei Siciliani veniva definito “giornalista antimafia”. Definirlo antimafia è un elogio ma assolutamente riduttivo. Lui era un giornalista completo, preparato, colto, dalla penna finissima». Questa la sua pericolosità: «Lui morì per questioni di mafia, ma era un giornalista che sapeva vedere. Il motivo vero per cui è stato ucciso è perché capiva le cose prima degli altri».

L’economia mafiosa

Per diversi anni si pensò che la mafia fosse un problema di Palermo: «Ancora non si capiva, neanche si leggeva, che la mafia stava per allignare a Catania, la mafia era prerogativa del palermitano, una guerra fra bande» racconta Vecchio. Di quegli anni sono le interviste ai boss mafiosi Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Fava capiva che bisognava indagare nell’economia mafiosa «ma anche nel mondo bancario, con l’intelligenza ricostruiva e indovinava», prosegue Vecchio. Sempre più un problema: «Certamente era un uomo più libero di tanti altri giornalisti». Scriveva per il cinema, per il teatro, dipingeva e disegnava. Chiunque abbia lavorato con lui lo ricorda come una personalità artistica, nonostante fosse in realtà laureato in legge. «Un’altra cosa che è scomparsa: lui era un maestro. “Carusi ho un’ora libera, venite in redazione” ci diceva. Ci insegnava a trovare la notizia, ad approcciarla, a scriverla». Era «un giornalista preparato, capace di aprire nuove strade e fare il maestro di giornalismo. L’ultimo a Catania».

Un maestro creativo

All’Espresso Sera creava nuovi menabò, escogitava titoli di impatto grafico, aveva combattuto per tenere il colore rosso. Eppure la rottura fu inevitabile quando non arrivò la naturale promozione a direttore: «Fava poteva scrivere pagine intere, la linea editoriale era spesso molto simile a un’ammirazione per il Fava giornalista, ma per il Fava rappresentante dell’editore certamente no» dice Vecchio. Maenza, che poi avrà una lunga carriera alla Rai, lo conobbe nella primavera del ’74. Era il periodo delle radio e Fava «ebbe l’idea di far partire un notiziario radiofonico e cominciammo a fare le prove di questo giornale». Tutte le sue passioni e il suo impegno contro la mafia li riversava nel giornale, ma non voleva crearsi un personaggio: «Lo faceva ogni giorno, come fanno tutti coloro che lavorando onestamente fanno la lotta alla mafia. Lui lo faceva e lo insegnava, e formava dei professionisti». Un gioco di squadra: «Nei giornali ormai c’è stata una rivoluzione, ormai ognuno pensa a difendere il suo lavoro, invece lui lo faceva come un allenatore. La lotta alla mafia è quando la fanno tutti, ogni giorno, non facendosi corrompere. Quando ognuno segue la propria coscienza». Per questo Fava la mafia l'aveva capita prima che si manifestasse: «In quel periodo il problema vero era una politica corrotta, al di là della mafia che era arrivata un secondo dopo».

Lavorare per la verità

Giovanna Quasimodo ha mosso i suoi primi passi nel giornalismo all’Espresso Sera con Fava, e poi lo ha seguito in tutti i giornali successivi. Avrebbe dovuto partecipare, insieme a Maenza, al radiogiornale che alla fine però non è mai nato. «Lui si inventava rubriche, inchieste, anche piccole cose che mi soddisfacevano. Decine e decine di interviste. Credeva che ci fosse del buono anche nel criminale, sono uscite delle storie straordinarie». I giornali volevano persuadere l’opinione pubblica che la mafia non esistesse, ma Fava mandava i suoi giornalisti a vedere: «Io e una mia collega ci avventuravamo nei quartieri non molto chic - dice ridendo Quasimodo -. Lui non si faceva problemi perché noi eravamo donne». Questo modo di raccontare la mafia cominciò a dare fastidio: «C’era, ma non si vedeva. Questa cosa, questa pericolosità di Pippo era emersa. Lui riuscì a dare fastidio anche così. Magistrati, potenti, sostenevano che era criminalità comune. Queste cose davano fastidio ai capimafia, ai cavalieri del lavoro». Giovanna lavorerà al Giornale del Sud e collaborerà alla fondazione dei Siciliani: «Io scrivevo poco perché ero presidente della cooperativa dei Siciliani». Le difficoltà e l’ostruzionismo sono cresciuti nel tempo, ma anche la sua popolarità: «Era molto noto, scriveva libri, il Teatro Stabile era per lui una seconda casa. Era conosciuto come un ottimo giornalista di inchiesta, uno dei pochi giornalisti della Sicilia: lui era il migliore». Aveva un entusiasmo straordinario: «Quell’entusiasmo lui non lo ha mai perso. Ce lo trasmetteva non perché era una materia didattica, ma perché era un entusiasmo contagioso e amore per la verità». E con questo insegnava a lavorare: «Quando non potevamo scrivere la parola mafia per non essere querelati mi diceva: “racconta le cose come stanno, emergeranno da sole e avrai fatto un buon lavoro per la verità”».

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