La regola è: dove c’è un pallone si inventa un campo. Poi ci sono campi che diventano romanzi e romanzi che raccontano campi. Nel cratere del vulcano Teoca a Città del Messico le due categorie si fondono. Perché c’era stato un romanziere, fumettista e discontinuo calciatore argentino: Roberto Fontanarrosa – tifosissimo del Rosario Central, idolo di uno scrittore raffinato come Juan Villoro e di un calciaintellettuale come Jorge Valdano – che aveva scritto un romanzo, L’area 18, dove la partita finale si giocava nel cratere di un vulcano, in Africa. Il paese era inventato (la giovane repubblica africana di Congodia); la storia era inventata (le avventure di Best Hama Seller che guida la squadra dei Procioni contro la potente squadra di Congodia); ora sappiamo che lo stadio, Bombasí (l’invincibile ridotta), invece, era possibile.

È quello che succede col calcio da più di un secolo: a volte una partita diventa racconto, a volte il racconto di una partita inventata viene affiancato dalla realtà. Ecco, il campo di Teoca, la “cancha de los dioses”, così vicino al cielo da poter sentire il respiro degli dei, che riesce ad essere molte cose convocando la fantasia di diversi scrittori e registi, perché non è un campo, ma un incrocio di trame. Convergono, anzi vengono convocati, nel giro di poco: oltre Fontanarrosa, Villoro e Valdano, Osvaldo Soriano, Eduardo Galeano, Stefano Benni, Martin Caparrós, Sergio Cabrera, Juan Pablo Meneses, Juan José Campanella, Eduardo Sacheri – siempre se necesita un arquero, un portiere serve sempre.

Il campo

Ma prima del racconto e delle partite, c’è il campo, al confine tra i comuni di Xochimilco e Milpa Alta, a sud della capitale messicana: non perfettissimo, più terra che erba, con intorno una salita di abeti sacri, e sotto quegli abeti delle improvvisate cucine. Il vulcano, dormiente per migliaia di anni, è stato utilizzato come sito per rituali nei tempi preispanici – si aprirebbe una parentesi per Indiana Jones: perché la zona è archeologicamente ancora da esplorare, qualcosa c’è al museo Archeologico di Xochimilco, ma Harrison Ford e Steven Spielberg saprebbero fare di meglio – e come osservatorio astronomico, trovandosi a 2.723 metri sul livello del mare (circa 8.900 piedi).

Chi ha giocato in Bolivia o visto quello che accade alle nazionali quando ci giocano per la Copa America o agli aeroplani per atterrare e decollare da La Paz, capirà che per giocare su questo campo non serve solo essere allenati alla corsa, ma anche all’altitudine.

Non è il solo campo strano, ma si iscrive a quei campi estremi dove è bello ricominciare, bisognerebbe fare una guida ai campi più strani del mondo dove giocare o guardare almeno una volta una partita. Da quello del deserto marocchino o australiano, a quello ricavato tra le rocce a Imotski in Croazia, da quello sull’acqua di Marina Bay a Singapore a quello quasi sull’acqua e quasi al Circolo Polare Artico delle isole Lofoten, o i vari stadi delle isole Far Oer dove ha giocato anche l’Italia, o quello colorato di Belo Horizonte in favela in contrasto con quello grigio di Kabul.

Il contrasto

Il campo nel cratere del vulcano Teoca c’è da più di sessant’anni, ma oggi trova il vasto pubblico perché ricominciando il torneo de Santa Cecilia – con più di dieci club amatoriali – si sono diffuse le foto sulle agenzie e i giornali sudamericani, in un momento senza partite, con solo il mercato a raccontare il calcio. Ed è il contrasto tra i tanti soldi che ogni giorno gli sceicchi arabi mettono sui tavoli dei club europei a rendere ancora più alto e ambito il campo degli dei.

Mentre da una parte c’è l’astratto di cifre e soldi che porta al cambio di maglia di tanti calciatori ogni giorno più giovani rispetto ai quasi pensionati degli anni passati, dall’altra parte del mondo c’è un campo sgangherato dove il sogno elementare resiste. E dove si crea la tregua, come racconta il regista colombiano, ex guerrigliero, Sergio Cabrera, in Golpe de estadio: immaginando una sospensione delle ostilità tra esercito e guerriglieri per vedere, nell’unico televisore presente in una piccola località, la partita di qualificazione ai mondiali americani del 1994 tra Colombia e Argentina. Il vero rito maya o azteco, e quindi romanzo o racconto, sarebbe di fermare il vortice assoluto di soli soldi giocando nel cratere.

Perché vedere il terzino molto di peso entrare in tackle sul ragazzino alla prima partita, o il vecchio attaccante chinaglione che continua a segnare nonostante non abbia più i capelli alla Julio Iglesias e senza le scarpe giuste che quest’anno non può comprare, pare brutto dirlo, ma è vedere il calcio, sono questi calciatori felici, un po’ sciamani, molto volenterosi – è tutto gratis – il motivo perché continuiamo a guardare il futbol, dal vulcano Teoca a Wembley.

Prima questi calciatori e poi quelli che vanno a giocare negli stadi con l’aria condizionata. Prima questi calciatori ai quali tocca squadrarsi più o meno il campo con la calce (come abbiamo fatto tutti giocando a calcio, un passaggio obbligatorio e un rito che serviva, lo spiega e bene Nanni Moretti per la pallanuoto in Palombella rossa), ed era questo lo spirito di Roberto Fontanarrosa mentre scriveva L’area 18, che potremmo racchiudere in un aneddoto che ha raccontato qualche anno fa Marcelo Bielsa: «Quando vivevo in Messico ho conosciuto un basco che era stato esiliato. L’esilio ti allontana dai tuoi luoghi ed è molto doloroso, e lui era uno specialista nella sofferenza.

Gli chiesi: Cos’è la cosa più importante per un uomo? E lui rispose: Essere amato senza condizioni». Essere amato a prescindere. E il calcio nel cratere si ama a prescindere, non ci saranno schemi guardioleschi, non ci saranno ossessioni di Sacchi o di Van Gaal, ma c’è l’essenza del calcio: una palla e il sogno di metterla in porta o di impedire che ci entri. Il resto viene dopo. Ma spesso va in campo e si sostituisce al sogno, non generando più il romanzo ma la noia.

Ricominciare

E per capire la capacità di sopravvivenza del calcio di oggi sarebbe bello provare a elencare i nomi dei grandi calciatori in attività che viene facile veder giocare nel cratere, e non per uno spot, rispondere Maradona non vale: ha giocato in campi peggiori e con un panorama pessimo.

Perché è con le maglie dispari che nasce il calcio, è con le partite sconclusionate e spesso non viste che cresce, ed è nei posti come Teoca che sopravvive.

E questo enunciato dovrebbe stare nelle stanze della Fifa che se lo dimentica ad ogni riunione, senza nemmeno più un Éric Cantona a ricordarglielo, perché ora canta, ma giocherebbe a Teoca, questo è certo, e si tirerebbe dietro anche Ken Loach ed Emir Kusturica, e gli altri? Chi viene a Teoca? Chi gioca a Teoca? Chi scrive il romanzo su Teoca? Ci vorrebbe un Carlo Petrini, slowfutbol, che dicesse: ripartiamo da Teoca. In fondo è in Messico che sono successe le cose più epiche e belle del calcio nel secolo scorso – Italia-Germania 4-3; i 2 gol di Maradona all’Inghilterra nel 1986 – c’è tutto per salvarsi. FutbolTeoca, un calcio per ricominciare.

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