Gonzalo Quesada è di Buenos Aires ed è un Puma, uno dei tanti andati in giro per il mondo a giocare, ad assorbire altri rugby dopo quello che aveva imparato nell’infinita incubatrice dei club all’inglese d’Argentina. Parigi e anche molta Francia profonda nelle sue stagioni in campo e fuori, e anche uno studio attento del gioco praticato di là del Canale. Ha conosciuto sino in fondo se stesso e gli uomini che gli stavano accanto, ha capito che il contatto umano è più importante di un volume di schemi. Quesada non è più giovane, va per i 50, e nella sua testa c’è una biblioteca come quella del suo concittadino Borges..

Da quando il vecchio Torneo si è allargato a Sei Nazioni, l’Italia ha provato con commissari tecnici neozelandesi (tre), francesi (due), sudafricani (due), irlandesi (uno). Argentini mai. Gonzalo è il primo e gli è bastato poco tempo per mostrare che miglior scelta non poteva esser fatta.

Nominato il 1° novembre, ha avuto solo un paio di mesi per guardare in faccia i giocatori, valutarli, fare le sue scelte, allargare il gruppo, studiare le strategie. «Sì, il tempo è stato poco, ma i progressi ci sono stati. Ho visto situazioni interessanti. Possiamo progredire, arrivare dove il rugby italiano non è mai arrivato». «La miglior Italia che abbia incontrato sulla mia strada», ha confessato, desolato e sincero, Gregor Townsend, ct scozzese, dopo quel secondo tempo che vecchi suiveur stimano come il migliore mai giocato da una squadra che porta la maglia azzurra.

Il suo lavoro 

Quando Marzio Innocenti, presidente della federazione, ha deciso, l’Italia veniva da cinque sconfitte nel 6 Nazioni dell’anno scorso, il rapporto con Kieran Crowley si era incrinato e l’esito della Coppa del mondo era stato disastroso. Si può anche finire fuori nella fase a gironi quando le teste di serie sono Nuova Zelanda e Francia ma incassare 156 punti e 22 mete in due partite, può portare a una depressione che si appiccica addosso, vischiosa.

Quesada non fatto proclami, come certi suoi predecessori che promettevano lo scalpo del 6 Nazioni. Ha detto solo che meccanismi andavano costruiti, che cura doveva esser messa nel possesso, che non era più il caso di azzardare attacchi velleitari: anche in un gioco duro come il rugby deve essere cercata e trovata l’armonia. Lui ci sta riuscendo: la più stretta sconfitta con l’Inghilterra (tre punti), il pareggio con la Francia (a un palo dalla vittoria), la vittoria con la Scozia (la vittima preferita degli azzurri: otto vittorie in 25 contatti) per chiudere un digiuno all’Olimpico che andava avanti da undici anni meno una settimana. In mezzo solo la resa senza condizioni di Dublino: 36-0 con l’Irlanda, la macchina verde che sta per mettere le mani sul secondo 6 Nazioni di fila.

L’Italia sta per andare a Cardiff (sabato) e affrontare il Galles: quattro partite, quattro sconfitte, l’ultima molto pesante (24-45 con la Francia) nello stadio che sembra una cassa armonica: cori commoventi e affetto profondo. Anche un guru come il neozelandese Warren Gatland non può trasformare le uova in tacchini.

In palio c’è il terzo risultato consecutivo (mai capitato in questo quarto di secolo) e un piazzamento lieto (il quarto posto? Chissà, gli incroci dell’ultima giornata potrebbero offrire esiti clamorosi) per chi ha collezionato troppi cucchiai di legno e ha conosciuto i giorni amari del dileggio, della paventata esclusione. Con Quesada, la risalita dentro i primi dieci del ranking mondiale: da ieri l’Italia è nona, davanti all’Australia, e l’ottavo posto, vetta raggiunta nel 2007, non è lontano.

I precedenti

Con l’Argentina l’Italia ha un debito che non potrà mai saldare: Diego Dominguez, detto el Cordobes, ha scandito l’avvicinamento alla promozione tra le elette con i suoi calci, i suoi drop, sino a superare quota 1000 punti; Sergio Parisse, nativo di La Plata e di forte radice abruzzese, colonna vertebrale della mischia azzurra, è il recordman di presenze (142) in Nazionale e il capitano per antonomasia: Martin Castrogiovanni ha recitato per lunghe stagioni il ruolo di orco della prima linea. Tre nomi, i più illustri, per un rapporto che è stato fitto, di grande qualità. Oggi l’argentino d’Italia è Juan Ignacio Brex, detto Nacho, bairense anche lui con nonno siciliano, gran placcatore che entrato nella maturità si è scoperto doti in attacco. La sua meta contro gli scozzesi ha rimesso la partita sui binari.

Questa squadra ha un nuovo ct, uno spirito nuovo e realtà che possono apparire sorprendenti e che sono il frutto di scelte, di svolte, di ricerche. Ross Vintcent, 21 anni, erede di Parisse, è nato a Johannesburg, è cresciuto a Dubai (il padre è molto ricco), ha deciso di andare a Exeter dove università e rugby sono di livello. Il padre lo ha aiutato per l’alloggio ma per il resto gli ha detto di mantenersi da solo e lui consegnava pizze. Un antico nonno materno italiano gli ha permesso di indossare la maglia azzurra.

E’ Isabella, trevigiana, ad aprire le porte a Louis Lynagh, figlio di Michael, campione del mondo con l’Australia nel ’91. La coppia si formò quando Michael giocava nella Marca per la squadra, il Benetton che presto verrà raggiunta da Louis, ala, sino ad oggi in campo con la maglia multicolore degli Harlequins londinesi.

I veloci e imprevedibili Ange Capuozzo e Martin Page Relo di scuola francese; il colossale Sebastian Negri, fuggito dallo Zimbabwe durante gli espropri di Robert Mugabe, Steve Varney, gallese con nonni italiani trapiantati nel Principato dopo la seconda guerra mondiale sono le altre pietruzze di questo caleidoscopio che in campo viene fatto ruotare dal veneziano Paolo Garbisi (il mediano di apertura nel rugby è il regista) e, dalla tribuna, dalle scelte di Gonzalo, l’uomo del nuovo miracolo italiano. Il primo era un catalano di Francia, Georges Coste.

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