Capita nella vita che alcuni problemi non li vogliamo riconoscere o affrontare, altri non hanno una soluzione, altri ancora non possono essere risolti fintanto che non sappiamo come chiamarli. Con il libro Crepacuore (Rizzoli, 2021) Selvaggia Lucarelli ha raccontato un’esperienza personale, dando un nome al problema – ovvero al dolore – di molte persone. Quel nome è dipendenza affettiva.

La dipendenza affettiva, l’autrice ne aveva già parlato in Proprio a me, podcast in sette puntate prodotto da Choramedia, nel 2013 è stata ufficialmente inserita nel manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali. Crepacuore dunque non parla di amore e sentimento, bensì di ciò che amore e sentimento non dovrebbero essere: la relazione, che diventa attaccamento patologico, di un soggetto empatico a una persona tendenzialmente narcisista e manipolatrice.

Tossicità, morte, lavoro

Alcune delle parole chiave che più e meno esplicitamente tornano e si rincorrono tra le pagine di Crepacuore sono: tossicità, morte, lavoro, rappresentazione.

“Tossicità” perché, anche se è difficile ammetterlo, a volte capita che una persona si insinui nel tessuto della nostra vita esattamente come farebbe una sostanza da abuso, portando con sé conseguenze che vanno dalla demolizione del proprio quotidiano fino allo sviluppo di sintomi da astinenza. “Morte” perché il dolore e la trascuratezza dei propri bisogni possono arrivare fino al punto di mettere a rischio la propria incolumità. Inoltre, come scrive la stessa autrice: «La fine di una relazione tossica, nel suo primo stadio, è un lutto senza riposo».

Mentre leggevo Crepacuore giravo frasi ed estratti alle persone più varie per età, professioni, estrazione. A molte di quelle che mi hanno risposto «è successo anche a me» è capitato che ribattessi «non me lo sarei mai aspettato».

C’è chi ospita in sé una maggiore predisposizione a sviluppare questa forma di dipendenza, ma la verità è che può capitare a chiunque. Soprattutto, può capitare anche a persone con un’immagine pubblica forte come quella di Lucarelli, là dove «tendiamo a identificare le persone con il lavoro che fanno, con quello che comunicano in pubblico, con il percepito. E invece c’è una stanza segreta in ognuno di noi, un luogo in cui il passato mastica il presente e restituisce una poltiglia amorfa di codici e filtri emotivi che spesso non c’entrano nulla col resto della nostra vita».

Gli equivoci alla base della rappresentazione dell’amore romantico sono infiniti, tra questi uno in particolare ricorda una specifica forma di narrazione legata all’uso di sostanze stupefacenti, riassumibile così: l’alterazione chimica stimola il genio e dunque può essere utile per il lavoro creativo. Analogamente, dello scoppio di “amore disperato” è facile che si dica: la passione amorosa alimenta la creatività.

Ciò che Selvaggia Lucarelli evidenzia sia attraverso la sua storia che attraverso le testimonianze altrui è che le dinamiche disfunzionali proprie di una dipendenza affettiva finiscono invariabilmente con l’essere più associabili ai concetti di anedonia e incapacità di lavorare che non a quello di exploit creativo.

Parlare di lavoro e di soldi è sempre importante, anche quando si parla di amore, perché lavoro e soldi significano autonomia, realizzazione personale nella società e spazio di manovra. La dipendenza affettiva è l’esatto contrario di tutto questo. La sua natura sinistra riverbera negli slogan romantici che di generazione in generazione rimbalzano tra diari, muri, bocche: sei tutto per me, non vivo senza te, morirei per te.

Imprinting famigliare

Ma come si entra in una spirale di dipendenza affettiva? Crepacuore racconta che la caduta spesso inizia da molto lontano, da un imprinting famigliare. Parlando del rapporto della madre con il padre Lucarelli scrive: «Non fu mai docile come certe eroine shakespeariane. Fu però sottomessa. Da sé stessa, soprattutto, e dalle sue scelte».

La storia è quella di una donna estremamente colta che in giovane età rinuncia a idee e ambizioni per abbracciare l’amore totale, e il progetto di una famiglia. Le frustrazioni e le tensioni stratificate negli anni a venire porteranno la figlia a pensare di sé: «Sarei stata un’eroina, sì, ma della Marvel. Quale Shakespeare».

Colpisce come in una manciata di righe compaia un doppio immaginario narrativo: quello della letteratura classica e quello della cinematografia pop. Non ho potuto che pensare a come le donne amate da Wolverine tendano a non fare mai una bella fine. Non ho potuto che pensare a come in ogni narrazione di ogni tempo il protagonista carismatico, se deve essercene uno, sia pressoché sempre un narcisista di grossa caratura.

Imparare ad amare

Non auspico certo un trigger warning in esergo a Cime tempestose, cionondimeno mi sono chiesta: nella nostra formazione chi abbiamo imparato ad amare e, prima ancora, chi abbiamo imparato a stimare?

Sono andata indietro con la memoria fino a raggiungere su un ripiano della mia libreria quella che viene considerata l’opera fondativa del romanzo russo: Un eroe del nostro tempo di Michail Lermontov.

Il libro narra, in modo in verità piuttosto impietoso e a tratti ironico, le vicende dell’ufficiale dell’esercito imperiale russo Pečorin. Un passaggio vede la lettera che Vera, unica donna che abbia mai saputo tenergli testa, scrive al protagonista prima di sparire per sempre dalla sua vita.

In quelle righe scritte nel 1840 possiamo trovare una rudimentale definizione di soggetto narcisista, quasi cinquant’anni prima che questa parola iniziasse a comparire in ambito medico: «Nessuno sa così tenacemente voler essere amato; in nessuno il male è così attraente, nessuno ha uno sguardo che prometta tanta beatitudine, nessuno sa meglio trarre vantaggio dalla propria superiorità, e nessuno può essere così veramente infelice come te, perché nessuno si sforza tanto di convincere sé stesso del contrario».

Con più e meno ironia, partendo dai testi classici e arrivando fino Al favoloso mondo di Amelie, passando per i grandi successi della musica leggera, per le più note commedie romantiche hollywoodiane e per la produzione Disney pre-Pixar, abbiamo un vasto menù di rappresentazioni che ci gridano a gran voce che siamo a metà, che la solitudine fa schifo, ma soprattutto che abbiamo bisogno di una persona con un carattere impossibile.

In altre parole, che ci gridano che se non lottiamo tra atroci sofferenze non ne vale la pena, perché in quel caso la trama della vita non sarà abbastanza interessante.

Ma leggere il libro di Selvaggia Lucarelli non significa concludere che del pathos, del lirismo e della sovrastimazione del sentimento a mezzo rappresentazione creativa non ne vogliamo sapere più niente. Creando possiamo vivere altri mondi, cambiare quelli che conosciamo o inseguire l’impossibile chimera di restituirli fedelmente, possiamo sondare l’estremo che siamo capaci di immaginare e di provare. Privarsi di questa gamma infinita di possibilità sarebbe un delitto.

Leggere il libro di Selvaggia Lucarelli è piuttosto, per usare le parole della psicologa Ameya Gabriella Canovi, autrice della prefazione, contrastare l’amore stereotipato venduto dal sociale a beneficio di un processo di rieducazione affettiva. Appropriarsi finalmente dell’idea che, una volta chiusi i libri e spente le tracce audio e video: «L’amore può finire, non è sforzo, non è accanimento, non si mendica».

Sono andata indietro con la memoria fino a raggiungere la madeleine di quasi chiunque sia nato negli anni Ottanta. Quel prodotto folle che è stato il musical fantasy Labyrinth. Uscito nelle sale nel 1985 narra la storia di Sarah, adolescente che cerca di ritrovare il fratellino rapito dal re di Goblin e nascosto nel cuore di un labirinto incantato (non credo di dover specificare come il pezzo forte di tutta la produzione sia il fatto che il re di Goblin venga interpretato da David Bowie).

Nessuno mi può togliere dalla testa che in quella pellicola ci sia margine per parlare di metafora della lotta per il potere in una relazione disfunzionale là, dove il narcisista seduttivo re di Goblin cerca di tenere in scacco la dipendente, ancorché caratterialmente forte, Sarah.

Chi lo ha già visto sa che la formula atta a rompere l’incantesimo e riappropriarsi della propria vita è la frase: «Tu non hai alcun potere su di me». Sembra semplice, in realtà è tanto difficile quanto possibile. Per farcela bisogna lasciare indietro il disamore per sé stesse (o sé stessi), abbandonare il senso di colpa, abbracciare la responsabilità; a volte, magari, farsi forza ricordando quel passaggio di Crepacuore che dice: «Non si è adulti, quando si è dipendenti».

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