Benché i lettori spesso lo ignorino, e i critici spesso lo dimentichino, molti scrittori di fama hanno avuto una formazione scientifica: ad esempio, Fëdor Dostoevskij, Robert Musil e Carlo Emilio Gadda erano ingegneri, Elias Canetti chimico, e Bertrand Russell e Aleksandr Solženicyn matematici. Gli ultimi tre hanno addirittura vinto il premio Nobel per la letteratura, e non sono i soli: anche John Maxwell Coetzee, vincitore nel 2003, ha una laurea in matematica, e ha lavorato come informatico, come ha raccontato nel suo libro Gioventù (2002).

In realtà Coetzee è una persona molto riservata, e anche quando ha scritto la propria autobiografia ha preferito mascherarla dietro la finzione di tre romanzi: oltre a quello intermedio appena citato, anche Infanzia (2001) e Tempo d’estate (2009). Addirittura, a volte ha lasciato che fosse il suo alter ego Elisabeth Costello (2003) a fare conferenze per lui, dietro la figura fittizia di una professoressa che va a fare un intervento in un congresso. Come si può immaginare da questi cenni, raramente Coetzee concede interviste. Gli siamo dunque grati per aver accettato di parlare con noi in occasione della recente uscita della traduzione italiana dell’ultimo volume della sua trilogia L’infanzia di Gesù (2013), I giorni di scuola di Gesù (2016) e La morte di Gesù (2019), che lui stesso ha definito «il mio tentativo di concepire di nuovo il Messia».

Anzitutto, com’è la situazione del Covid dalle sue parti?

A oggi la pandemia qui non è affatto finita, ed è possibile che non sia ancora arrivata al suo massimo. Io non sono stato (ancora) toccato dal virus, ma questo dipende soprattutto dal fatto che vivo in Australia, un paese che ha potuto facilmente chiudere i confini esterni, essendo un’isola. Io poi sto ad Adelaide, nell’Australia Meridionale: uno stato scarsamente popolato, che ha chiuso a sua volta i propri confini interni con gli altri stati. Sono dunque più o meno al sicuro, almeno fino a quando non mi avventuro all’esterno.

Come ha vissuto psicologicamente il confinamento, però?

Non posso ignorare il fatto che, se vogliamo attribuire un significato o un’intenzione alla pandemia, e se cerchiamo di situarla in un contesto più generale, possiamo ben supporre che serva a sbarazzare la popolazione umana dalla gente come me: cioè, dagli esseri che hanno vissuto più di quanto sarebbe naturale, grazie ai progressi della medicina occidentale e alla disponibilità di una buona alimentazione. Da un punto di vista darwiniano il Covid-19, essendo più o meno innocuo per i giovani, è un modo che la natura ha scelto per riequilibrare un profilo demografico in cui c’è troppa sproporzione dei vecchi rispetto ai giovani.

Ha scritto qualcosa sulla pandemia, in questo periodo? Immagino che sia un soggetto con un grande potenziale letterario: penso, ad esempio, alla scena della peste di Atene che conclude il De rerum natura di Lucrezio.

Niente di ciò che ho scritto quest’anno ha a che fare con la pandemia. Ma sicuramente c’è un potenziale letterario, come dimostrano anche il Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe e La peste di Albert Camus. Una pestilenza è una massiccia irruzione della natura nella storia umana, un’irruzione di cui ci affanniamo a comprendere il significato, sia con gli strumenti razionali della scienza che con i mezzi esplorativi dell’immaginazione. E lei cos’ha scritto?

Un libro sull’infinito: mi è sembrato un tema adatto per quella sorta di prolungati esercizi spirituali che sono stati i mesi di lockdown.

Spero che venga presto tradotto in una lingua che posso leggere, perché non c’è niente di cui abbia maggior bisogno, che capire l’infinito!

Mi sembra un’affermazione forte! Come mai ha questo bisogno? E come mai così grande?

Sento un bisogno particolarmente urgente di comprendere l’infinito perché sono vecchio, e presto sarò morto. Io sarò morto, e questo Io si troverà di fronte o alla non esistenza, o a un tipo completamente diverso di esistenza, «trascinato nel corso diurno della Terra, con rocce, pietre e alberi», come scrisse William Wordsworth.

Secondo Georg Cantor, ci sono tre tipi di infinito attuale: l’infinito assoluto di Dio, il transfinito concreto del mondo, e il transfinito astratto dei numeri. Lui credeva in tutti e tre, ma notava che ci sono otto possibili combinazioni al riguardo. La sua quale sarebbe?

Non so bene come situarmi nello schema di Cantor, ma nell’ambito della matematica tendo a quello che chiamo una comprensione operativa dell’infinito. Penso che l’infinito sia necessario in matematica, tanto quando i numeri irrazionali: non si potrebbe costruire l’intero edificio senza questo genere di mattoni. Ma il fatto che ciò che chiamiamo “infinito” si inserisca bene nella struttura della matematica, non significa che sappiamo cosa “sia”.

Non possiamo almeno dire che ci sono infiniti numeri? Dato qualunque numero intero, basta fare “più uno” per ottenerne un altro più grande.

Che i numeri interi siano senza fine sembra essere la più semplice dimostrazione che l’infinito “esiste”. Ma se espandiamo questa dimostrazione per provare a realizzarla, a renderla comprensibile nel mondo reale, ci accorgiamo subito che è tautologica. L’espansione funziona così: «Se tu metti un mattone sul tavolo, io posso metterne un altro sopra. Se tu metti un altro mattone sul mio, io posso metterne un altro sul tuo. E la cosa non finisce mai». E invece, nel mondo reale, la cosa finisce: ad esempio, quando uno dei due che mettono i mattoni muore. Nell’universo ogni attività, inclusa la posa dei mattoni o l’addizione dei numeri, deve arrivare alla fine, a meno che il tempo sia infinito. Così la tautologia diventa subito evidente.

Questo significa che, nello schema di Cantor, lei accetta il transfinito astratto dei numeri, ma non il transfinito concreto del mondo. Rimane ancora l’infinito assoluto di Dio: lei è credente?

Siamo tutti credenti. Anche coloro che si definiscono “non credenti” credono nell’evidenza dei propri sensi, e rifiutano tutti gli argomenti (alcuni dei quali sono molto cogenti) che i sensi ci possono ingannare. Dubitare di tutto, e mettere in pratica le conseguenze del dubbio universale, porta a uno stato di paralisi. Ma se lei mi chiede se credo in Dio, cioè se credo che Dio esista, la mia risposta è che non so sono cosa significhi “esista” in questo contesto. Credere che Dio esista, senza sapere cosa significhi “Dio esiste”, significa credere sulla base della fede.

Per lei dunque Dio non è intelligibile. E l’universo lo è?

Verrà un tempo in cui non ci saranno più uomini, e in generale non ci saranno più esseri che incarnano ciò che noi chiamiamo intelligenza, perché l’universo sarà diventato troppo caldo o troppo freddo per loro. Benché io sappia (o creda) che quel tempo verrà, trovo difficile immaginare “come” l’universo sarà allora. I corpi celesti continueranno a obbedire a quelle che noi chiamiamo leggi? Addirittura, ci saranno ancora “cose” distinte, o non rimarrà alcuna distinzione, e tutto sarà un’unica cosa? Come vede, sto ripetendo una vecchia domanda, già formulata dai presocratici.

E che risposta si dà?

Io tendo a credere che a quel tempo l’universo rimarrà ancora intelligibile. Per me questo significa che l’intelligibilità, o l’intelligenza, è intrinseca nell’universo, e che per “esserci” l’universo non potrebbe farne a meno.

E io non posso fare a meno, visto che abbiamo toccato il tema della religione, di chiederle qualcosa sulla sua ultima trilogia su Gesù.

Io però mi sono imposto di non fare mai l’interprete dei miei libri. Anzitutto, perché se potessi essere più chiaro ora di quando ho scritto un libro, quel libro sarebbe difettoso. E poi, perché l’esperienza mi ha insegnato a non dar credito a ciò che gli artisti dicono del loro lavoro.

Rifiuta solo di dare interpretazioni dei suoi libri, o anche semplici informazioni su di essi? Lo chiedo perché Nabokov, nelle Lezioni sulla letteratura, diceva che «i lettori infantili leggono per identificarsi con i personaggi, quelli adolescenziali per imparare a vivere, e quelli maturi per sapere come i libri sono stati scritti».

Io non penso che sia infantile identificarsi con personaggi immaginari o fittizi. E non penso che sia adolescenziale cercare di imparare a vivere dai libri. Dunque, non penso che l’unica ragione “matura” per leggere un romanzo sia l’apprezzamento estetico.

Si potrebbero fare altre classificazioni. Flaubert, ad esempio, suggeriva: «I bambini leggono per divertirsi, gli ambiziosi per istruirsi, ma voi leggete per vivere». Lei cosa direbbe, invece?

Non ho un mio sistema di classificazione. Non ho proprio il tipo di mente che ama classificare le cose.

Una cosa che però salta agli occhi in alcuni suoi libri, dal Diario di un anno difficile alla trilogia su Gesù, è l’uso della matematica a fini narrativi.

Non credo di usare la matematica nella mia narrativa. Ma è vero che mi sento libero di esplorare argomenti di natura filosofica, in senso lato: i narratori hanno sempre rivendicato questa libertà. E la matematica è uno di questi argomenti.

In particolare, lei sembra mostrare un forte interesse per la probabilità e le sue applicazioni: alla vita, in generale, e alla medicina, in particolare. Da dove nasce questo interesse?

A rischio di sembrare un estremista, io direi che la medicina moderna, in molte delle sue branche, è diventata schiava del metodo statistico. L’uomo comune, quando ha a che fare con la medicina moderna, riceve ripetutamente diagnosi o indicazioni di cure espresse in termini probabilistici: «Se segui il piano X, hai il 90 per cento di probabilità di ricadere nella malattia nei prossimi cinque anni, e il 60 per cento nei prossimi dieci». Decodificare queste affermazioni, esplicitare le assunzioni sulle quali essesi basano (ad esempio, le assunzioni riguardanti l’infinito), va oltre la capacità di spiegazione della maggior parte dei dottori, e la capacità di comprensione della maggior parte dei pazienti.

In che senso? Non sembrano cose così complicate da capire.

Quando il dottore dice: «Se segui il piano X, eccetera», non sta indirizzandosi al particolare individuo che ha di fronte, ma al generico rappresentante di un campione di popolazione al quale egli appartiene: ad esempio, gli uomini sopra i cinquant’anni con una storia pregressa di fumo. Ma il paziente non è interessato ad affermazioni sulla popolazione. Giustamente, vuole solo sapere di sé, del suo caso, del suo futuro.

E dunque?

Non è questo il luogo per una lezione sulla probabilità. Ma, in breve, io vedo la teoria della probabilità come una branca della matematica, e considero il suo legame con il mondo reale come qualcosa di problematico, con fondamenta traballanti. Dunque scelgo di interpretare le affermazioni probabilistiche, soprattutto quando escono dalla bocca dei medici, non come affermazioni sul mondo reale, ma sul grado di fiducia e sullo stato mentale di chi le fa: «Tu mi consigli di seguire il piano X. Ma se io lo seguo, sei fiducioso che tra cinque anni io sarò ancora vivo? E quanto fiducioso sei? Molto, abbastanza, o solo un po’?».


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