Bucarest, novembre del 1989: una ragazza di ventotto anni con l’aria triste viene pizzicata da un controllore su un autobus, senza biglietto. Lui sta per farle la multa, lei lo guarda e quasi scusandosi gli dice: «Ma io sono Nadia», come se bastasse quel nome a riportarla indietro nel tempo, quando era l’eroina di un’intera nazione. Il controllore lascia perdere e la obbliga a scendere dall’autobus e lei, finalmente, capisce di essere libera. Ora che il suo nome non conta più nulla, può finalmente riprendersi la sua vita, e scappare.

Così, la notte del 27 novembre la ragazza cammina per sei ore, fino a quando raggiunge un punto concordato con un amico che la aspetta dall’altra parte del confine, in Ungheria, per aiutarla a fuggire.

Qui comincia la seconda vita di Nadia Comăneci, la ragazzina che alle Olimpiadi del 1976, con il suo 10 perfetto, ha cambiato la storia diventando una delle leggende del Ventesimo secolo. Solo che l’ha cambiata per gli altri, la storia, trasformando la sua in un inferno.

Cosa succede quando sei una fabbrica di denaro, ma il padrone della fabbrica non sei tu? Dai potere a una nazione, la fai esistere geograficamente nell’immaginario del mondo, ma non hai la libertà di intestarti ciò che tu stesso produci.

Nadia Comăneci ha permesso ad altri di avere moltissimo mentre lei ha avuto pochissimo, o meglio, non ha avuto niente. Situazioni meno estreme di quella di Nadia, vengono vissute da molte donne ogni giorno, sul posto di lavoro, quando si vedono pagate – a parità di mansioni – meno della metà dei colleghi maschi, o quando non riescono ad arrivare alle cariche apicali per il famoso soffitto di cristallo.

L’indipendenza economica è chiave della libertà di una donna, perché ti lascia la possibilità di scegliere, di decidere se vuoi andartene e ricostruirti. Ma cosa fai se quella possibilità non ce l’hai?

Fatta di elastici

In lingua russa Nadežda (di cui Nadia è diminutivo) significa “speranza”, ed è proprio la speranza quella che i signori Comăneci – papà meccanico e madre casalinga – ripongono nella loro bambina quando la iscrivono all’associazione sportiva Fiamma, che promette di formare piccole atlete a diventare stelle incandescenti. Nadia ha tre anni quando comincia a prendere dimestichezza con le possibilità dei suoi movimenti, ma per vedere il futuro eccezionale che le spetta occorre uno sguardo da veggente. Quello sguardo lo poserà su di lei Béla Károlyi, un allenatore che insieme alla moglie Marta ha una scuola a Onești, dove Nadia è nata.

La prima volta che ho letto il nome dell’allenatore di Comăneci ho pensato che il caso non è mai per caso. L’unico Béla di cui ho memoria è l’attore Béla Lugosi, che ha sovrapposto la sua esistenza a quella del vampiro più famoso del mondo, il conte Dracula, ma Károlyi è un succhiasangue decisamente più temibile del suo collega.

Nel giro periodico delle scuole elementari che l’allenatore fa alla ricerca di giovani prodigi da assoldare, un pomeriggio scova Nadia Comăneci e rimane ipnotizzato. La bambina salta come se fosse fatta di elastici, è portentosa senza saperlo mentre sfida la legge di gravità, e lui la vuole nella sua accademia.

Razioni e disciplina

La scuola di Béla e Marta, in quanto a disciplina, fa apparire l’allenatore di Mimì Ayuhara – la pallavolista con le catene ai polsi che si prende pallonate in faccia come carezze – una specie di Babbo Natale.

Il cibo è poco: otto ore di allenamenti al giorno ricompensati da 150 grammi di carne tra pranzo e cena, yogurt, verdure, ma niente pane, farina e zucchero, le ragazze non devono prendere peso.

Anche l’acqua è razionata, Béla e Marta controllano le ginnaste persino sotto la doccia, per impedire loro di bere di nascosto direttamente dal getto. «Avevano paura che bevessimo troppo e aumentassimo di peso. Noi aspettavamo a tirare lo sciacquone, salivamo sul water con un bicchiere in mano e bevevamo l’acqua dalla vaschetta», racconta Nadia che ricorda anche di come una luce accesa nel dormitorio oltre l’orario consentito dalle regole, era sufficiente a Béla per obbligarle a correre in pigiama nella neve, a notte fonda. Parecchie ex allieve hanno paragonato Károlyi a un sadico psicopatico che considerava le violenze fisiche e psicologiche fondamentali per temprare gli spiriti e i corpi delle atlete.

Quel che è certo è che Nadia non si diverte più, e perdere il divertimento a sei anni è un po’ prestino, ma in cambio inizia sistematicamente a vincere qualsiasi cosa si possa vincere.

Nel 1969, a otto anni, partecipa ai campionati rumeni e si piazza tredicesima; l’anno successivo, nella sua prima competizione nazionale a squadre, cade dalla trave ma porta a termine con determinazione l’esibizione e la sua squadra riesce comunque a vincere. Poi Nadia non cade più, scala le classifiche e fa incetta di medaglie d’oro, sino ad arrivare a Montreal, in Canada, per le Olimpiadi del 1976.

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La perfezione

Le altre ginnaste sono molto più famose e belle di Nadia e delle sue compagne, sono soprattutto più grandi, e dunque più donne. «Al nostro arrivo a Montréal non ci conosceva nessuno: ogni attenzione era riservata alle russe – dirà Nadia, proseguendo – Béla se ne fregava che fossimo graziose, ogni settimana designava tra noi la più spericolata. E tutte aspiravamo a quella designazione. Lui valorizzava la nostra forza, il nostro coraggio e la nostra resistenza, non certo le acconciature. Credo che preferisse lavorare con ragazzine giovanissime proprio per questo: non avevamo avuto il tempo di imparare le regole dell’eleganza».

Il corpo di Comăneci è funzionale alla vittoria, diventa un marchio politico da sventolare in un’epoca in cui gli sportivi vengono utilizzati come potenti strumenti di propaganda. Dirà lei stessa «i rumeni vendevano il comunismo», e se per farlo è occorso nutrire le ginnaste a steroidi e anabolizzanti per tentare di bloccarle in una pubertà eterna, nessuno ha sottilizzato troppo.

Durante quei giorni elettrici, la cosa che più colpisce le giovanissime atlete rumene è la quantità folle e coloratissima di cibo a disposizione.

Una compagna di Nadia annota nel suo diario: «Si nutrono come animali qui. E masticano tutto il tempo. Sul tavolo: vasetti colmi di una pasta scura e grandi focacce farcite con salsa di pomodoro, prosciutto e formaggio fuso». Non conosce nemmeno i nomi di ciò che sta descrivendo: burro d’arachidi e pizza, quello che ogni adolescente di quelle parti mangia ogni giorno. Béla nasconde alle sue ginnaste qualsiasi cosa possa distrarle o, molto peggio, farle ingrassare. Se radi al suolo la possibilità del desiderio, nessuno può ricattarti o tentarti.

Con il suo metro e cinquanta per nemmeno quaranta chili Nadia, a 14 anni, si avvita nell’aria, vola sugli attrezzi senza nemmeno sudare: non ha seno, la pelle è di un biancore inquietante, come la polvere di magnesio che satura l’aria, non sorride quasi mai, perché – dirà lei stessa – «un sorriso mi farebbe perdere qualche millimetro di equilibrio e rischierei una penalità».

E lei non vuole rischiare niente mentre volteggia tra le parallele asimmetriche cambiando per sempre la storia della ginnastica.

Dopo un’esibizione prodigiosa è il momento della votazione, e succede una cosa senza precedenti: sul tabellone si accende il voto 1. Sono tutti esterrefatti, nessuno ha mai assistito a un’esecuzione così, giuria compresa, che si è trovata costretta a schiacciare quell’1 senza poterlo far seguire dallo 0 che avrebbe composto la leggenda del 10, scoprendo solo in quel momento che la numerazione digitale arriva a 9.99 ma non contempla la perfezione. Mentre Nadia Comăneci è quel 10.

I tecnici sono intenti a sistemare la bega numerica quando Bart Conner, un bellissimo ginnasta americano diciottenne, che non ha vinto niente, corre da Nadia e le dà un bacio sulla guancia a favore di telecamera.

Nadia non si accorge nemmeno di lui, è un piccolo robot concentrato a fare il suo dovere, non sa cosa sia la tenerezza di un gesto affettuoso.

Alle Olimpiadi guadagnerà il 10 altre sei volte vincendo tre ori, un argento a squadre e un bronzo nel corpo libero, diventando così l’arma perfetta di Nicolae Ceausescu, la campionessa dello sport che fa sventolare la bandiera rumena in tutto il mondo. «Ho vinto tre medaglie d’oro che dedico al partito, alla patria e al popolo rumeno», ripeterà a memoria in molte interviste mentre stringerà una bambola che le hanno appena regalato: ha la frangetta come lei, come lei non sorride.

©LaPresse archivio storico - Nadia Comaneci Montreal anno 1976

La fata del dittatore

Quello che fa Nadia è miracoloso e propizio per molti motivi. La Romania è un paese pieno solo di fame, non ci sono letteralmente i soldi per nutrire i figli che Ceauşescu costringe il popolo a mettere al mondo. Da quando è salito al potere nel 1967, ha emanato un decreto che vieta l’aborto: nessun motivo religioso quanto, piuttosto patriotico e produttivo, l’aumento della popolazione servirà nei suoi piani a raddoppiare la forza lavoro. Il preambolo al decreto dice che «Non essere sposati è motivo di sospetto, e il numero obbligatorio di figli per donna: cinque. Il tentato aborto sarà punito con il carcere e le donne che si rifiutano di avere figli saranno anch’esse passibili di detenzione».

Impossibile procurarsi i preservativi e il risultato è che muoiono migliaia di donne a causa degli aborti clandestini, così come migliaia di famiglie indigenti sono costrette ad abbandonare i figli in orfanotrofi che garantiscono loro malnutrizione, abusi e spesso la morte. La repressione violenta di ogni tipo di dissenso è la base della sua politica: si fa chiamare “il Condottiero” e va in giro brandendo uno scettro, padrone di una nazione portata allo stremo per ottenere l’indipendenza economica che lui agogna.

Nadia è la campagna pubblicitaria perfetta del dittatore tiranno: se lui è il “Genio dei Carpazi”, lei ne diventa la “Fata”, la bambina a cui Ceauşescu conferisce il titolo di “Eroe del lavoro socialista” e ogni mattina, quando lei entra in palestra per i consueti allenamenti, Béla la accoglie dicendo: «Ecco la nostra vacca sacra e decorata»!

La vacca sacra ha appena spalancato la porta che la condurrà dritta all’inferno.

Il figlio prediletto di Ceauşescu, Nicu detto “il principe” – undici anni più grande di Nadia – la sceglie come nuovo balocco. E ciò che il principe vuole, il principe ha.

Giocatore d’azzardo, gran bevitore e famoso principalmente per gli abusi sulle donne che hanno la sfortuna di diventare l’oggetto del suo desiderio, Nicu prende Nadia come sua amante bambina praticando su di lei ogni tipo di violenza.

Spesso, se andiamo a cercare il guasto nelle vite di chi distrugge quella degli altri, troviamo sempre chi per primo ha generato l’orrore. Qui, come in molti casi, si tratta della madre, Elena, una che ha delle soluzioni un po’ drastiche a ciò che per lei costituisce un problema. Non le piace la donna che Nicu ha scelto e che sarà il suo primo e unico, grandissimo amore? La fa rapire dai servizi segreti e la costringe ad abortire il figlio che aspetta da lui. Quando Nicu, devastato, prova a scegliere un’altra ragazza, di nuovo Elena interviene ritenendo che non sia all’altezza, e si sbarazza di lei facendola spedire in Italia. Su Nadia non ha nulla da eccepire: la piccola soldatessa è perfetta per il figlio.

La prigione d’oro

Allontanata dalla famiglia, Nadia viene rinchiusa in un palazzo in cui vive sola, piantonata giorno e notte dalle guardie di Nicu e con la possibilità di uscire solo dopo aver ricevuto il permesso di quest’ultimo.

L’unico modo che ha per salvarsi – pensa – è mettersi fuori gioco, così si auto-boicotta e lo fa nel modo più semplice: con il cibo. Mangia moltissimo, ingrassa, in questo modo sarà troppo pesante per saltare e avvitarsi come prima. Ma il regime la obbliga a tornare in forma per continuare a gareggiare, e Nadia riprende a piroettare. Vince sempre, ma non come prima.

Alle Olimpiadi di Mosca del 1980 alterna ori e argenti, ma alla prova individuale con tutti gli attrezzi i giudici – dopo un verdetto finale che impiegano più di 25 minuti a formulare – stabiliscono per lei un secondo posto dietro alla russa Yelena Davydova, che gioca in casa e che ha il sostegno del regime e del pubblico.

Béla urla che è una vergogna, che sono dei corrotti, e probabilmente ha ragione.

Nadia continuerà a vincere e perdere per alcuni anni, ma non sarà più affare di Béla. Lui e Marta decidono di disertare durante un tour che li ha portati negli Stati Uniti, dove rimangono chiedendo asilo politico nel 1981.

Intanto i lividi sul corpo di Nadia e le unghie strappate aumentano in misura direttamente proporzionale ai suoi tentativi di suicidio: la ricoverano in ospedale prima per un taglio al polso che, secondo la versione ufficiale, si è autoprodotta per via della fibbia metallica dei fermapolsi, poi perché ha “incidentalmente” bevuto della candeggina.

E Ceaușescu cosa fa? Commissiona una residenza spettacolare per la sua famiglia: 840.000 metri quadrati divisi tra 1.100 stanze. La chiama “la casa del popolo”, ma è solo casa sua: dodici piani in altezza e otto di sotterranei, con un volume che supera la piramide di Cheope.

«Era come vivere in una prigione laccata d'oro», racconta Nadia. «Quando sono scappata sapevo che i fucili delle guardie avrebbero potuto uccidermi».

A un certo punto Nicu si stanca di lei e allenta la presa, la nuova Nadia si è mangiata la Lolita che dormiva con le sue bambole, il paese non trova più l’incanto in lei, così la dimentica e Nadia diventa un sulfureo ricordo nella memoria.

Nel 1984 smette di gareggiare e diventa allenatrice mentre il mondo cambia sempre più velocemente.

Fuggire altrove

Il 9 novembre del 1989 crolla il muro di Berlino con un inevitabile effetto domino che dà uno scrollone ai regimi comunisti e fa vacillare anche Ceaușescu.

Arriviamo al giorno in cui Nadia, sull’autobus, non viene riconosciuta e trova il coraggio di scappare.

Una settimana prima ha conosciuto Costantin Panait, un massaggiatore un po’ furfantello un po’ arraffone che le ha garantito il suo aiuto, così la notte del 27 novembre grazie alla complicità di una cameriera – l’unica che si dimostra umana con lei – Nadia si dilegua.

Porta con sé una sola medaglia d’oro, la prima. La cameriera rischierà la condanna a morte (si salverà solo perché la sua esecuzione verrà preceduta da quella di Ceausescu).

Constantin l’aspetta nel punto convenuto alla frontiera con l’Ungheria e la fa salire in macchina, «Vestita di stracci e con la faccia che m'ero sporcata con la terra» come Nadia stessa ricorda. Arrivano in Austria e chiedono l’asilo politico agli Stati Uniti.

Lei non fa nemmeno in tempo a essere perseguitata come “traditrice del sistema” perché il 22 dicembre una rivolta popolare fa collassare praticamente in un istante più di venti anni di dittatura.

Il Genio dei Carpazi è costretto a fuggire con la moglie a gambe levate. Tentano di scappare in elicottero, ma vengono acciuffati e dopo un processo lampo di un’ora, il giorno di Natale c’è la fucilazione.

Le ultime parole di Elena prima dei cento colpi di kalashnikov sono state: «Andate tutti all’inferno».

Dopo quella data 170mila bambini verranno ritrovati negli orfanotrofi, alcuni di loro ancora legati ai letti.

Quando Nadia e Costantin atterrano all’aeroporto di JFK, a New York, lei indossa vestiti che sembrano di un altro secolo, un trucco che le aggiunge decadi e la paura paralizzante di non conoscere una parola in inglese. Eppure tutti la vogliono, applaudono, si commuovono.

Nadia ha 27 anni e l’intenzione di utilizzare quel corpo allenato per arricchire una nazione, in una fonte di reddito per se stessa. Constantin è diventato il suo fidanzato e manager, le fissa interviste con radio, tv e giornali, non importa se Nadia non sa come difendersi da presentatori che la riducono a fenomeno da baraccone. L’unica cosa che conta è guadagnare. Ma i cachet li intasca lui.

Buio e rinascita

Nadia fa di tutto, sfila anche come modella per delle reti locali, indossa abiti da sposa che le vanno sempre più stretti: mangia tantissimo, una cameriera del diner dove lei e Constantin vanno sempre dice che «ordina una bistecca alle 7 del mattino e un cocktail di gamberetti alle undici». Comăneci cambia corpo ma non sostanza: sceglie solo ciò che conosce, cioè un compagno che di nuovo diventa il suo aguzzino, e si ritrova nell’ennesima relazione abusante.

A chi le chiederà perché è rimasta incastrata in un altro rapporto violento, Nadia tenterà di giustificarsi: «Lui minacciava di chiudermi dentro una valigia, di spedirmi in Romania e consegnarmi alla Securitate». Ma come fai a spiegare che volerti bene è quasi impossibile, quando non hai mai ricevuto bene? Impiegherà un bel po’ a liberarsi di lui, e ci riuscirà grazie a un aiuto insperato. E Constantin se ne andrà rubandole 150.000 dollari, e la sua auto.

Nel 1990, ospite in uno studio televisivo, Nadia si ritrova seduta vicino a Bart Conner, il famoso ginnasta americano che le aveva schioccato quel bacio nel 1976.

Bart, nel frattempo, ha macinato parecchi successi vincendo a sua volta le Olimpiadi del 1984, e saputo della presenza di Nadia nel talk show, ha fatto di tutto per essere invitato. Non importa se lei all’inizio non lo riconosce, Bart non molla, le mostra una foto di quel bacio e diventa il suo migliore amico per quattro anni. La aiuta a uscire dalla relazione tossica con Constantin e la chiama a lavorare con lui, per gestire l’accademia di ginnastica che ha aperto. Nel 1996 si sposano a Bucarest in diretta televisiva, e nello stesso anno Nicu muore. Il destino ha avuto in serbo per lui il carcere e una cirrosi che lo porta a ricongiungersi con madre e padre.

Oggi Nadia e Bart hanno un figlio, Dylan Paul, che da ragazzino saggio non ama lo sport, e gestiscono insieme la loro accademia di ginnastica in Oklahoma.

Quando le chiedono se, potendo riavvolgere il nastro, c’è qualcosa della sua vita che cambierebbe, lei risponde: «No, tutto ciò che ho fatto mi ha portato dove sono, quindi non cambierei niente, e non mi pento di niente. Nella vita è un continuo imparare, anche dalle situazioni e dalle decisioni sbagliate. Ma senza sacrificio non arriva nulla. Né la gloria né la libertà. Piangere non serve, serve non mollare la presa».

 

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