Dei quattro vangeli riconosciuti dalla tradizione cristiana il più enigmatico e affascinante è senza dubbio il suo, «il più mistico e profondo» secondo Carrère. Nato a Gerusalemme intorno all’anno 15, di condizione elevata e di stirpe sacerdotale, sta vicino al Messia durante l’ultima cena, per la quale mette forse a disposizione la sua casa: ai piedi della croce lo vede morire e il terzo giorno con Pietro entra nel sepolcro vuoto, vede e crede
Dei quattro vangeli riconosciuti dalla tradizione cristiana il più enigmatico e affascinante è senza dubbio quello di Giovanni, che si distingue nettamente dagli altri tre. I racconti evangelici di Matteo, Marco e Luca – pur caratterizzati ognuno da un proprio punto di vista – sono infatti così simili tra loro che si possono leggere in parallelo e per questo sono detti «sinottici».
La differenza del quarto vangelo è vivacemente descritta da Emmanuel Carrère nel prologo del suo romanzo Il Regno (Adelphi), dove i protagonisti indimenticabili sono però l’apostolo Paolo e soprattutto il suo compagno di viaggi Luca, l’evangelista. Tutto inizia quando un prete amico dello scrittore gli consiglia di leggere e meditare ogni giorno un versetto dei vangeli.
«Scelgo di affrontare quello di Giovanni», con «la vaga idea che sia il più mistico e profondo della banda dei quattro» ricorda Carrère. E subito se ne rende conto: «È tosto, soprattutto se uno, più che illuminazioni metafisiche, cerca norme di condotta, e mi chiedo se non sia meglio cambiare cavallo prima di uscire dalla scuderia. In confronto a questo purosangue che mi riceve scalciando, Marco, Matteo e Luca sembrano gagliarde bestie da tiro più adatte a un principiante. Eppure resisto a quella che giudico una tentazione». Anche se poi sarà Luca a incantarlo e a prendersi la scena del romanzo.
Tre «bestie da tiro» e un «purosangue», dunque. Un contrasto altrettanto forte era stato delineato presto, intorno all’anno 200, da uno dei più raffinati intellettuali cristiani antichi: secondo Clemente di Alessandria, infatti, Giovanni aveva scritto un vangelo «spirituale» dopo «aver visto» che gli altri tre evangelisti avevano raccontato le «cose carnali».
A commentare il testo giovanneo era stato per primo, verso il 160, lo gnostico Eracleone, di cui Clemente cita alcuni brani. E a Eracleone si riferisce di continuo Origene nel suo monumentale commento (purtroppo in gran parte perduto): per confutare la tendenziosità dell’eretico, ma ammirando la finezza delle sue interpretazioni.
Per i cristiani orientali l’autore del quarto vangelo diventa «il teologo» per eccellenza e il suo simbolo – tratto da una visione del profeta Ezechiele – diviene l’unico animale che secondo la zoologia antica sostiene a occhi aperti lo splendore del sole. Come poi riassume Agostino: «L’aquila è Giovanni, che predica dottrine sublimi e contempla con occhi fermi la luce interiore ed eterna», quella di Cristo.
In età moderna la preminenza più che millenaria del quarto vangelo viene scossa, tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XX, dalla «preferenza razionalista» ricorda il biblista statunitense Raymond Brown. La teologia giovannea, considerata una «fantasiosa deificazione», viene così squalificata.
Nei decenni successivi, parallelamente al superamento degli steccati tra commentatori cattolici e protestanti, è soprattutto l’esegesi tedesca e inglese (con Bultmann, Cullmann, Dodd, Hengel, Schnackenburg, Zumstein) a reagire. Si moltiplicano gli studi e scoperte archeologiche a sostegno dell’attendibilità delle indicazioni di un vangelo che era ritenuto una tardiva rielaborazione teologica lontana dalla storia. Il quarto evangelista è rivalutato in pieno, anche per la ricostruzione cronologica della predicazione e della passione di Cristo.
Giovanni è «forse, dopo Paolo, il maggiore teologo della storia della chiesa» afferma con piena ragione uno dei commentatori, il metodista Charles Barrett. Basta sfogliare il quarto vangelo per rendersi conto della sua densità, sin dal celeberrimo prologo.
Il brano dà le vertigini per la sua forza. I diciotto versetti con cui inizia il quarto vangelo lo proiettano prima della creazione, prima del tempo, prima di tutto. Non a caso richiamando la prima parola – bereshit, «in principio» – della Bibbia ebraica: «In principio era la Parola», en archè en ho lógos.
Nel testo originale greco «Parola» è lógos (in latino verbum), termine intraducibile che indica – grazie a secoli di riflessioni filosofiche e religiose, tra ellenismo ed ebraismo – il principio creatore, che «era presso Dio» ed «era Dio». Poi, l’inaudito: questa Parola preesistente si fa carne in Gesù Cristo. Ed è Cristo, il Figlio, a raccontare, spiegare Dio stesso, che invece «nessuno ha visto mai».
Nei tre vangeli sinottici Cristo annuncia il regno di Dio, mentre nel quarto vangelo Cristo annuncia sé stesso: è lui il regno. Per esprimere questo concetto giovanneo Origene conierà e userà più volte il termine autobasiléia, che Ratzinger definisce una «bella espressione» nel suo limpido libro sulle realtà «ultime» (Escatologia, Cittadella Editrice): il suo più riuscito, come scrive il futuro papa.
I tempi ultimi sono già iniziati con l’incarnazione di Cristo. Su questo il quarto vangelo insiste di continuo. Tanto che biblisti e teologi definiscono l’escatologia giovannea già «realizzata», mentre quella dei sinottici è spostata in avanti. Definita «conseguente», l’escatologia dei sinottici mette piuttosto l’accento sulla futura venuta del regno di Dio, «non ancora» del tutto realizzata. Anche se la tensione tra il «già» e il «non ancora» della fine dei tempi è comune ai quattro evangelisti.
«Si direbbe che Cristo viva con l’orologio in mano» dirà il cardinale Montini nel capodanno del 1961 commentando il vangelo di Giovanni. Quel giorno l’arcivescovo di Milano – che due anni e mezzo più tardi sarà eletto papa – sta predicando sul valore del tempo e riflette sulle parole di Gesù nel quarto vangelo: «è venuta l’ora, è venuta l’ora, è scoccato il momento».
Ma chi è l’autore del quarto vangelo? Sul «discepolo che Gesù amava», figura che sta sullo sfondo del racconto giovanneo, Giulio Busi ha scritto un libro bellissimo (Giovanni, Mondadori). Sono poco più di cento pagine, impeccabili e documentate ma anche straordinariamente attraenti, tramite le quali l’autore, filologo preparato e narratore ammirevole, sa entrare – e accompagnare chi legge – in uno dei testi decisivi della letteratura mondiale. Grazie alla scelta d’intrecciare la sua prosa con le parole dell’evangelista, tradotte in modo nuovo.
Giovanni è definito «amico difficile» da Busi, che lo ha studiato per oltre un quarantennio ed è arrivato a conclusioni già avanzate da molti studiosi ma rimaste chiuse in cerchie specialistiche. Con una scommessa: quella che «dalla voce si riesca a risalire a colui che ha pronunciato le parole, alla persona che ha visto e ha raccontato».
Abbandonata l’attribuzione tradizionale del vangelo all’apostolo Giovanni, che si diffonde però solo a partire dal III secolo, molti indizi portano – come già si sostiene in età antica – a un altro Giovanni, l’Anziano, autore anche delle tre lettere attribuitegli nel Nuovo Testamento. Nato a Gerusalemme intorno all’anno 15 e, unico tra gli evangelisti, di condizione elevata, giovanissimo «rimane affascinato, anzi sconvolto, dall’incontro con Gesù, il Maestro che scuote le certezze e getta scompiglio nella fede d’Israele».
Di stirpe sacerdotale, Giovanni gli sta vicino durante l’ultima cena, per la quale mette a disposizione la sua casa, ipotizza Busi. Poi ai piedi della croce, insieme alla madre di Gesù, lo vede morire e, il terzo giorno, con Pietro entra nel sepolcro vuoto, vede e crede.
Lasciata la Giudea prima del 66, il discepolo si stabilisce a Efeso, capitale della provincia romana dell’Asia Minore, sulla costa occidentale dell’attuale Turchia. Qui, dopo aver dettato «la gemma, lucente e oscura», costituita dal suo vangelo, Giovanni muore intorno al 100.
Dalla sua cerchia esce anche l’Apocalisse, che diverrà l’ultimo libro biblico: letterariamente molto diversa, la «rivelazione» – questo significa il titolo – su quello che accadrà è coerente con gli altri scritti giovannei e, pur attraverso il velo delle visioni profetiche, con la stessa escatologia «realizzata» del quarto vangelo.
«Punto d’arrivo di tutta una vita», il prologo del vangelo di Giovanni è «la risposta, sconcertata e sconcertante, a un evento unico, ovvero all’incontro con il Figlio, che ha vissuto, è morto ed è risorto per compiere la volontà del Padre» scrive Busi. Perché la parola di Gesù «consola, descrive, fa vedere Dio». Così quando a Efeso, circondato dai discepoli, l’Anziano ricorda, «è come se Gesù gli fosse ancora accanto».
Allora Giovanni «cerca di descriverlo, con la voce che un po’ gli trema, per la vecchiaia e per l’emozione». Finché comincia a dettare il vangelo: per far risuonare la Parola, che è «fin da principio, prima che il mondo esistesse».
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