Dall’inizio della pandemia è passato quasi un anno, molte conseguenze devono ancora venire, altre già sono tra noi. Ci disabituiamo – se possibile ancora più di prima – a discutere insieme, a trovare punti di forza e di debolezza nelle reciproche posizioni, a cercare di raggiungere un terreno comune che si traduca in proposte concrete. Il teatro e i suoi lavoratori ci stanno provando. Lo abbiamo visto in prima serata, con il programma Ricomincio da Rai3 presentato da Stefano Massini e Andrea Delogu. Un format che ha voluto portare in televisione attori e attrici, ma anche ricordare che dietro a un palco ci sono innumerevoli figure professionali, dalle maestranze agli autori, e che ora è fermo.

Lo abbiamo visto lo scorso 10 ottobre con la manifestazione dei “Bauli”, quando 1.300 lavoratori dello spettacolo si sono presentati in piazza Duomo a Milano riempiendola con cinquecento contenitori per le attrezzature di scena, simbolicamente vuoti.

LaPresse

Spesso ne parla Massimiliano Loizzi, attore e scrittore, che in un post del 7 febbraio scriveva «non avete idea di cosa voglia dire sentirsi totalmente abbandonati e resi inutili, perché questo sta accadendo». Ne stanno parlando, dalla scorsa estate, trenta compagnie teatrali riunite nella Rete dello Spettacolo dal vivo (Res), che hanno compreso come l’aggregazione sia l’unica via possibile.

Ristori solo per alcuni

Il teatro vuole rialzare la testa e lo fa a partire dal Veneto. «I soci sono professionisti del lavoro artistico», spiega Filippo Tognazzo di Zelda Teatro, portavoce: «Abbiamo compreso la necessità di condividere informazioni, saperi e pratiche, di passare dalla diffidenza alla condivisione». L’intento è quello di «evitare di tornare allo stato precedente, ovvero a un sistema per molti versi già a pezzi, ma ancora più poveri». Dello stesso avviso sono i membri della compagnia veneziana Malmadur che, a evidenziare come i tempi pre-pandemici non fossero l’Eldorado del settore culturale, svolgevano altri lavori, anche totalmente diversi dall’ambito performativo, ritrovandosi a «dover lavorare per poter lavorare».

«Il nostro intento è di essere riconoscibili per essere riconosciuti e il primo grande traguardo, raggiunto in dialogo con le istituzioni, è stato lo stanziamento in bilancio da parte della regione di un milione di euro aggiuntivo per progetti rivolti agli Extra-Fus, che non ricevono i finanziamenti pubblici previsti dal Fondo unico dello spettacolo», dice Tognazzo.

Dal punto di vista fiscale la situazione è infatti spesso frammentata, in un panorama che rende complesso tutelarsi economicamente. C’è chi ha avuto accesso a forme di ristoro, chi grazie a contratti regolari ha potuto usufruire di cassa integrazione e bonus mibact per le date perdute, ma ci sono anche tutti gli altri. Tognazzo spiega che «i contratti regolari vengono applicati poco e male e l'intero sistema viene gestito molto spesso anche dall'amministrazione pubblica, giocando al ribasso»; mentre Gianmarco Busetto, fondatore del gruppo di ricerca teatrale Farmacia Zooè (Mestre), racconta come per anni abbiano lavorato con un codice dedicato alle associazioni culturali che, alla prova della crisi più profonda, preclude l’accesso a qualsiasi forma di supporto economico: «Persone che lavorano dalle dodici alle quattordici ore al giorno con il teatro e per il teatro oggi non risultano essere lavoratori ufficiali dello spettacolo. Per la prima volta da che avevo vent’anni ho sentito l’incertezza di chi non sapeva cosa sarebbe accaduto il giorno dopo, e non è stata una bella sensazione». «Con Res» prosegue Busetto «è cambiato tutto, perché noi indipendenti che non avevamo voce in capitolo su nulla abbiamo creato una realtà che non può più essere ignorata».

L’obiettivo ora è quello di raggiungere una strategia condivisa, un sistema più trasparente ed equo. Al tavolo delle trattative, non più soli e atomizzati, i soci di Res chiedono che alla cultura sia destinato l’1 per cento del bilancio regionale, iniziativa che secondo il collettivo preparerebbe il terreno per il post-pandemia, innescando di riflesso opportunità economiche per turismo, artigianato e ristorazione. «Ora che Res ha creato, o quantomeno sta provando a creare, una coscienza di classe, l’obiettivo è anche far sì che realtà come questa si moltiplichino in tutta Italia facendo rete tra loro» concludono i Malmadur.

Ragionare di scenari futuri e di iniziative presenti è difficile e fa paura, ma un modo per cominciare a farlo è forse partendo dalla sicurezza. Tognazzo ribadisce che «I teatri sono più sicuri di altri esercizi: biglietto tracciato, mascherina dall'ingresso all'uscita, misurazione della temperatura, igienizzazione e distanziamento obbligatori». Eppure sembra non bastare ancora, e su questo punto ha rischiato di arenarsi anche il generatore di spettacolo più celebre d’Italia: il teatro Ariston.

Il festival di Sanremo, tempio della musica popolare, croce e delizia di appassionati e detrattori, è riuscito anche nell’intento di spaccare la comunità dei lavoratori del teatro. Da un lato chi vedeva il suo svolgimento come potenziale occasione per parlare di spettacolo al grande pubblico, dall’altro chi affermava che si sarebbe trattato di un autentico smacco nei confronti dell’intero settore. Per settimane la sua stessa messa in onda è stata in forse, per giorni Amadeus e il suo team hanno cercato vanamente di avere il via libera al pubblico in sala. Ora nel paese abbiamo almeno tre certezze:  sì, il festival si svolgerà; no, non ci sarà il pubblico; sì, riaprire gli altri teatri è ancora fuori discussione. I Malmadur ritengono che «al di là delle polemiche, siamo in tanti a pensare che un Sanremo con il pubblico in sala avrebbe potuto rappresentare una buona testa d’ariete. Questo esito è un segnale che allontana ulteriormente la speranza di riaperture».

La cultura come extra

Mi sono chiesta molte volte, in questi mesi, quando è successo che quelli che chiamiamo eventi culturali (ma che di fatto sono ritualità di incontro sociale) hanno iniziato a essere percepiti come un “di più”, l’extra di cui l’individuo contemporaneo può tutto sommato fare a meno. Non si tratta di difendere un presunto diritto allo svago, bensì di riconoscere una palese demolizione dei riti di aggregazione. Un processo iniziato ben prima che la vicinanza fisica diventasse pericolosa per la salute, e ora in apparenza inarrestabile.

Tognazzo conferma che «A teatro non si va per "vedere" o "assistere". Si va per condividere. Il pubblico online ha una reazione totalmente diversa da quello in sala, dove le persone quasi vibrano. Anche per questo Res vede lo spettacolo in streaming come una soluzione unicamente di passaggio». Tra i soci, la cooperativa vicentina Dedalofurioso fa un passo oltre nell’immaginare il futuro, perché «il teatro non è un luogo ma una pratica, un rito comunitario. Guardiamo la chiesa: la messa può svolgersi ovunque, anche in mezzo a un bosco. Se la comunità teatrale raggiungesse questa consapevolezza in maniera unitaria, sarebbe più compatta anche nel rivendicare i propri diritti».

Il teatro è soprattutto un modo di raccontare la realtà, per i Malmadur non è «né il cibo dell’anima, né la bellezza che salva il mondo, ma uno strumento di lettura. I riti, dalla rappresentazione teatrale ai funerali, sono contro la vita, e proprio per questo sono importanti. Sono possibilità di decostruzione, sospensione, implosione della realtà quotidiana. Il tempo del teatro confligge con quello del mondo. Questo aspetto, che è sostanzialmente spaventoso, è la cosa che si dimentica più facilmente quando si parla della necessità del teatro, ed è anche l’aspetto più intraducibile attraverso lo streaming».

Busetto conferma che «se il teatro è online è un’altra cosa, troviamo un altro nome per definirlo. Ne esistono tantissimi tipi, e quel che hanno in comune è il fatto che tutto è unico perché accade una volta sola. Per quanto riguarda il futuro non so come immaginarlo, ma posso dire come lo vorrei. Spero si possa tornare a fare spettacoli in presenza, utilizzando lo streaming dove strettamente necessario. Spero che la politica possa aiutare non solo con i ristori, ma con iniziative chiare, come bonus per il pubblico e agevolazioni fiscali per chi decide di investire in compagnie indipendenti. Spero in un buon connubio che crei un ponte tra teatro e impresa».

In questi giorni le incertezze si moltiplicano insieme alle notizie sulle varianti del virus e ai primi movimenti del nuovo governo. La sera del 17 febbraio, nella sua replica al Senato, il premier Draghi ha parlato apertamente di cultura, citando «musei, cinema, teatri, musica, danza, tutto lo spettacolo dal vivo e ogni arte in generale», e affermando che la perdita del patrimonio culturale corrisponde a una perdita economica ma che «ancora più grande sarebbe la perdita dello spirito».

Nelle stesse ore io ho tra le mani l’ultimo libro di Andrea Pennacchi (La guerra dei Bepi, People 2020) che, c’è da dire, parla di tutt’altro. Raccoglie i monologhi dedicati, dall’attore e autore, al nonno e al padre e al loro vissuto nella prima e seconda guerra mondiale. Ma Pennacchi è un uomo di teatro e a quello non si sfugge, così a pagina 70 leggiamo che «Il teatro è quel che è, i soldi son quello che sono, noi siamo quello che siamo: zeri, in questa tragedia. L’unica roba che abbiamo son gli esseri umani, e l’immaginazione».

© Riproduzione riservata