C’era tre volte Mathieu van der Poel. Il primo è nato un giorno freddo di gennaio, nelle Fiandre, dove i suoi si erano trasferiti dall’Olanda, ed è diventato una stella del ciclocross. Il secondo parla francese come mamma Corinne Poulidor, figlia di Raymond che salì sul podio del Tour otto volte senza vincerlo mai e senza neanche mai indossare la maglia gialla: suo nipote è diventato il più forte corridore di classiche su strada, vincendo quello che al nonno – magnifico perdente – era sempre sfuggito.

Il terzo è quello che ha scelto di essere. Perché c’è soltanto una cosa che il campione che ha stravolto il ciclismo odia più di perdere, ed è annoiarsi. Allora cambia bici. L’ultimo sogno che gli rimane da realizzare è vincere l’oro olimpico nella mountain bike, la specialità che ha incontrato per ultima ma che ha amato immediatamente, per sempre.

Uno: van der Poel e il fango

Figlio di Adrianus Aloysius Jacobus - nel ciclismo assai meno pomposamente Adrie, vincitore di un Fiandre, una Liegi e un mondiale di cross - il più piccolo dei van der Poel è cresciuto ai bordi delle piste da ciclocross, sfidando suo fratello nel fango intanto che papà finiva di gareggiare.

David era più alto, e in principio lo batteva: lui reagiva facendo memorabili scenate. «Vuole vincere anche a Monopoli, ha dovuto fare un grande lavoro per imparare a perdere», racconta Adrie. Il piccolo van der Poel giocava a calcio, ovviamente in attacco, ma vincere e perdere insieme agli altri (o per colpa degli altri) non gli piaceva. Così guardò quello che aveva in casa.

«Il ciclocross è uno sport super individuale. Io non amo la vita di gruppo, la folla». Quest’anno ha cominciato vincendo il mondiale in febbraio. D’inverno, nelle poche settimane in cui il ciclismo su strada si ferma, i suoi colleghi vanno in vacanza al sole. Lui invece va a correre nel fango. «Perché annoiarmi a casa quando posso fare qualche gara?».

Lo sforzo è breve ma intenso, servono forza, coordinazione, prontezza di riflessi e capacità di superare gli imprevisti. Esiste una coppa del mondo, corridori che fanno proprio quello di mestiere: ma quando arriva van der Poel li batte. È come giocare in cortile per lui: la bici da ciclocross è la prima che ha trovato in cantina. A otto anni lo portavano alle gare con il camper sponsorizzato dei van der Poel e le ruote in carbonio.

Cominciò allora a sfidare e a battere quello che ancora oggi è il suo miglior nemico, Wout Van Aert: altrettanto forte, ma meno freddo. Quest’anno il fiammingo gli è arrivato dietro al mondiale di ciclocross e anche su strada, due volte secondo.

«Non voglio neanche pensare a quello che avrei vinto se non ci fosse van der Poel», ha sorriso amaro. Quanto agli altri, al traguardo del mondiale dicevano tutti la stessa cosa: «Mai fatta una corsa così dura». Poi aggiungevano: «Quello là è pazzo».

Due: La strada di Mathieu

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Quello là è Mathieu, olandese per parte di padre, e francese per la metà Poulidor. Era la fine degli anni Ottanta quando l’ex grande campione andò ospite in Martinica e si portò dietro sua figlia. In discoteca Corinne vide un giovane olandese e cadde innamorata: quando lui le confessò che faceva il corridore come suo padre, era ormai troppo tardi.

Cresciuto nel mito dell’eterno secondo, quando suo nonno è morto, quattro anni fa, Mathieu ha appeso nella palestra di casa una sua gigantografia in bianco e nero, «così mi guarda mentre mi alleno». La leggenda di Francia passava l’inverno nelle Fiandre da Corinne e andava a vedere tutte le gare di cross dei suoi nipoti.

«Il nonno non ci ha mai parlato di ciclismo, credo che non volesse farci pesare la sua storia. Non so se essere nipote e figlio di un campione di questo sport sia stato un vantaggio o no: conosco soltanto la mia storia».

Con due precedenti così, Mathieu poteva proseguire la tradizione di famiglia, o non esserne all’altezza. Invece ha trovato una terza strada: ha esagerato le storie di suo nonno e di suo padre, rendendole quasi marginali.

A ventotto anni, su strada è campione del mondo in linea, ha vinto quattro classiche Monumento, tappe al Tour de France e al Giro d'Italia, la Strade Bianche, la maglia rosa e quella gialla che suo nonno aveva soltanto sfiorato. La sua cifra rimane però la leggerezza.

L’anno scorso, al suo unico Giro d’Italia, incantò perché dava tutto a ogni tappa, attaccando di continuo. Sulle montagne ardite dell’ultima settimana, ormai stremato, impennava in salita per cercare ancora un momento di spettacolo, un bis alla fine di un recita ben riuscita. Pochi mesi prima era alla Coppi e Bartali, piccola corsa a tappe di una settimana tra Emilia-Romagna e Toscana.

Un pomeriggio, sulle colline sopra Cesena, alcuni cicloamatori, ragazzi poco più giovani di lui, lo riconobbero, volevano un selfie. Li seguì sulle salite, e al bar pagò la merenda a tutti. «Era lui che ci chiedeva di noi, voleva sapere cosa studiamo, che musica ascoltiamo».

Quando è a casa, in Belgio, potrebbe scegliere con quale campione allenarsi: abitano tutti in pochi chilometri. Invece esce in bici con Niels e Bram, un semiprofessionista e un dilettante. «Attacca da lontano e continua a farlo finché non lo seguiamo più. Allora cominciamo a chiamarlo, a cercarlo», hanno raccontato. Ha sempre fatto così anche in corsa. «Altrimenti il ciclismo è noioso. Dicono che sbaglio? Possono venirmi dietro, prendermi e battermi. Se ci riescono sarà divertente». La bici da strada è il suo destino.

Tre: Matje e il mondo

Quest’anno ha cominciato vincendo il mondiale di ciclocross, in febbraio. Cinque settimane più tardi si prendeva la Milano-Sanremo, altre tre settimane e arrivava da solo al traguardo della Parigi-Roubaix, sul pavé del nord della Francia.

Ai primi di agosto, sei mesi dopo il primo mondiale, ha vinto anche quello su strada, il più bello degli ultimi decenni. «Sento di avere quasi chiuso il cerchio». Quello che manca a Matje - così si fa chiamare in casa - è diventare campione del mondo con la mountain bike, l’ultima bici che ha provato, quella che si è scelto, la sua preferita.

Roxanne, la sua compagna, la sera dopo la vittoria del Fiandre – una delle classiche su strada più dure e spettacolari del mondo – non vedendolo rientrare uscì a cercarlo: lo trovò in garage che parlava con la sua mtb. «È la più divertente, almeno per allenarsi, e la più pesante: quando riesci a domarla la soddisfazione è ancora maggiore».

Da piccolo, in vacanza sulle Alpi, i suoi erano costretti a sequestrargli la Trek perché Matje passava il tempo a salire e scendere dall’Alpe d’Huez, spendendo energie senza senso. Per anni lo ha fatto anche in corsa. Il mondo della mtb è grande, e per competere con i migliori devi saper fare tutto: guidare la bici, andare forte, saltare in alto, rimanere in piedi. A lui piace così.

«È un mondo più rilassato». A Glasgow è caduto dopo pochi metri, rovinandosi un po’ il gusto della maglia iridata vinta sei giorni prima su strada. All’Olimpiade di Tokyo era andato per la mtb, voleva l’oro e invece cadde male rovinandosi la schiena. Ecco perché vuole assolutamente la prossima, allora sì il cerchio sarà chiuso.

Domani proverà il percorso sulla collina di Elancourt, nel test event dei Giochi Olimpici. Potrebbe essere in vacanza a godersi i suoi due mondiali, invece pensa a quello che non ha vinto. La bici da cross ce l’aveva in cantina, quella da strada nel destino. La mountain bike è il suo sogno di essere qualcun altro.

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