A quanto pare uno dei motivi per cui i beghinaggi sono sopravvissuti molto più a lungo delle utopie socialiste è il fatto che si fondavano su una reale esigenza, non sull’idealismo politico. Non cercavano necessariamente di trasformare la società, bensì di aiutare le donne a sopravviverle. E lo facevano con un impegno che un tizio di Brooklyn che si dilettava dell’idea che fosse fantastico avere tre mogli in una fattoria sui monti Catskill non avrebbe mai potuto metterci.

La chiesa cattolica sosteneva quelle cittadelle per un caritatevole riconoscimento del bisogno, sì, ma anche perché consapevole dei rischi che le donne correvano con i loro corpi e le loro anime all’interno del matrimonio e della famiglia. Per i cattolici il matrimonio era appena un gradino più su della dannazione: «Meglio sposarsi che bruciare all’inferno» e via dicendo.

Ma con la crisi degli alloggi in quasi ogni grande città americana, con la solitudine che è ormai un’epidemia, con un fiume di malattie e disperazione, e con i tassi di suicidio alle stelle – in particolare in tutto il Midwest e la Rust Belt – abbiamo un gran bisogno di modi nuovi di organizzare le case e l’appartenenza, senza nemmeno un’istituzione ricca e potente come la chiesa che possa o voglia soddisfare tali necessità.

Il bisogno non basta

C’è un’altra deplorevole realtà: il bisogno non basta. Alla fine degli anni Ottanta, trovandosi sottoposte a ostilità e violenze da parte del mondo intorno a loro, un gruppo di donne decise di formare un quartiere collettivo occupando e acquistando case nel quadrilatero racchiuso tra la Venticinquesima e la Trentunesima Strada e tra Gillham Road e Troost Avenue, al centro di Kansas City. Lo chiamarono Womantown.

Era a pochi passi da dove avrei abitato io, vicino all’angolo tra la Quarantacinquesima e Troost, e mi sarei potuta fermare fuori da Womantown come avevo fatto fuori dal beghinaggio, con una differenza sostanziale. Womantown raggiunse il culmine con un centinaio di lesbiche alloggiate nelle case, ma come progetto formale fallì dopo pochi anni. Non c’è più nulla a indicarla, non ne restano tracce visibili.

In questo tranquillo quartiere residenziale, in edifici del primo Novecento dai sorprendenti dettagli art déco, un gruppo di donne cercò di ricreare il progetto utopistico per cui tante altre si erano battute. Formarono una comunità eliminando le recinzioni tra i singoli cortili, propugnando una politica delle porte aperte, condividendo il lavoro domestico e riunendosi regolarmente per i pasti e le assemblee.

Uno spazio necessario 

C’era senz’altro la necessità di qualcosa come Womantown. Negli anni Ottanta, pur essendo una città cosmopolita, Kansas City era contaminata dalla natura conservatrice della regione. Il diffondersi dell’epidemia di Aids aveva riportato l’attenzione sulla comunità gay, contribuendo alla lotta per l’accettazione degli omosessuali, ma facendone anche un bersaglio dell’odio.

Un odio che, nei primi anni Novanta, si concretizzò nella vicina chiesa battista di Westboro, la cui missione divenne quella di far sapere al mondo che Dio Odia i Froci, organizzando picchetti ai concerti di Tori Amos, ai funerali dei veterani della guerra del Golfo e ad altri raduni a caso. Womantown era un modo per le donne di assistersi a vicenda in un mondo che perlopiù le voleva morte.

Si sgretolò per motivi forse prevedibili. Una coppia interrazziale fu oggetto di discriminazione e di critiche da parte degli altri membri di Womantown, il che mandò in pezzi la solidarietà. Il razzismo era un problema diffuso nella comunità gay, come in tutta Kansas City. Per la gente, avere voce equivaleva ad avere il controllo.

Le più forti, convinte di sapere quale fosse un comportamento accettabile e quale no, cercarono di assumere il controllo del progetto. È difficile dire che cosa esattamente fece precipitare le cose – come gran parte della storia degli omosessuali al di fuori delle principali città costiere, anche questo è un capitolo poco documentato e studiato – ma alla fine degli anni Novanta la comune era sparita e la zona era tornata a essere un quartiere qualunque.

Poi nel corso del decennio la discriminazione si attenuò e divenne più difficile sostenere simili spazi paralleli. L’emarginazione spesso induce le persone a crearsi i propri bar, chiese, librerie e quartieri, ma una volta che la minaccia diventa meno pressante è più facile integrarsi nella massa piuttosto che continuare a distinguersi. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se una volta passato il peggio dell’emergenza dell’aids il matrimonio egualitario è diventato la parola d’ordine del movimento per i diritti dei gay.

È più facile chiedere tolleranza che accettazione. Ed è anche più facile considerarsi individui anziché parte di un gruppo, se la tua identificazione con quella specifica categoria non è rafforzata ogni giorno dalla condanna altrui.

Questione di libertà

Simili progetti sono tutti destinati a fallire? La definizione americana di libertà – «non devo niente a nessuno, né tasse, né attenzione, né assistenza» – è radicata troppo a fondo in ciascuno di noi? La cultura consumistica in cui viviamo ha avvelenato perfino la nostra immaginazione.

Quando, rientrati a casa esausti dal lavoro, ordiniamo qualcosa da mangiare su internet o divoriamo cornflakes appoggiati al lavello della cucina, non sogniamo una cucina comune in cortile, dove agguantare una scodella di minestra appena fatta e un po’ di pane e commiserarci a vicenda.

Fantastichiamo soltanto di poterci permettere di pagare qualcuno che cucini per noi. Come nel caso dei fourieristi, che credevano nell’uguaglianza di genere ma proprio non ce la facevano a prendere in mano uno scopettone, mi chiedo se l’idealismo sia sufficiente a sconfiggere decenni di socializzazione.

Come scrive Simone Weil in La prima radice, il suo saggio su ciò che dà alle persone un senso di appartenenza, «La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto». Prima di poter pensare a ciò che ci è dovuto, è necessario pensare a ciò che dobbiamo gli uni agli altri. Altrimenti ce ne stiamo lì, con le mani tese, indignati, senza alcuna intenzione di soddisfare i bisogni di chicchessia se prima non sono stati soddisfatti i nostri.

È semplice e ovvio, eppure è totalmente contrario al nostro odierno modo di pensare. Ciò vale in particolare per i gruppi che si sono trovati per decenni a condurre lotte per l’uguaglianza alimentate da resoconti dettagliati dei danni subiti, dal ricordo reiterato di ciò che è stato fatto ai membri del gruppo, di ciò che gli è stato negato e di ciò che gli è dovuto.

Una mentalità vittimistica ci dice che abbiamo bisogno di protezione e la forma migliore di protezione è il controllo. Gli oppressi si trasformano in oppressori in un attimo, ed è per questo che una storia d’amore interrazziale può diventare un punto critico in una presunta utopia femminista.

Ma per superare l’idea tradizionale della famiglia che ti dice di chi devi prenderti cura e chi non se lo merita, non basta sostituire «persone che condividono il mio patrimonio genetico» o «persone raccolte sotto questo tetto fisico ed economico» con «persone che condividono questo specifico segno identificativo», sia esso la sessualità, la razza, il genere o il reddito.

L’idea di comunità non basta. È un concetto troppo ampio, troppo nostalgico e indistinto. Non significa soltanto circoli della maglia e qualcuno che ti porta la spesa quando sei malato. Significa gruppi di persone che la pensano allo stesso modo ed escludono ogni dissenso. I neonazisti hanno un grande senso della comunità, e così pure i no-vax e i miliziani. Quello di cui abbiamo bisogno è la società.


I miei tre papà. Come liberarsi dai fantasmi del patriarcato (BigSur 2024, pp. 260, euro 18,50) è un libro di Jessa Crispin

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