Accostare la spiritualità allo sport può sembrare azzardato. Eppure, più si entra nei dettagli di muscoli e prestazioni più si scopre che la corporeità, da sola, non è sufficiente: non basta per spiegare la meraviglia dell’eccellenza atletica che il fisico sa produrre e non soddisfa il bisogno di senso per chi, per raggiungerla, dà tutto sé stesso.

Fu il padre della microbiologia, Louis Pasteur, a dire che «un po’ di scienza allontana da dio ma molta scienza riconduce a lui». Usò questa apparente contraddizione per spiegare che più si conosce, maggiormente si riesce ad entrare nei particolari, più sorgono domande essenziali che restano senza risposta. Declinando il paradosso in chiave sportiva, il risultato sarebbe più o meno questo: un po’ di fisicità allontana la spiritualità ma molta fisicità la riavvicina. Più si lavora sulla sofisticatezza del corpo per svilupparne le potenzialità, più affiorano interrogativi che hanno a che fare con il senso della vita.

Forse per questa ragione l’Olimpismo è ricco di cerimonie, simboli, miti che fanno da ponte tra visibile e invisibile, tra materiale e trascendente. Una ritualità affascinante che collega la religiosità del suo antico passato con la spiritualità della sua modernità. Una ritualità che avvicina atleti e spettatori e che fa viaggiare gli ideali attraverso il linguaggio universale delle emozioni. Non importa se il Comitato olimpico internazionale sia o meno credibile.

Non conta se gli alti dirigenti o i bassi impiegati nel sistema sportivo, siano virtuosi o no. Il rito è un bisogno prepotente: nasce dalla fragilità degli uomini nell’affrontare le incertezze e cresce nella necessità di soddisfare il sentimento di appartenenza ad una comunità che ne riconosce l’importanza. Perciò cercare di separare il valore del rito dalla volubilità dell’essere umano che lo cerca, lo esegue, lo usa, è semplicemente un esercizio di coerenza.

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Passato e futuro

Il sito archeologico di Olimpia è un santuario: chi lo visita viene invaso da un’energia potente che induce al raccoglimento e che sa sorprendere anche i più scettici. A migliaia di anni di distanza da quando quei luoghi furono il teatro dell’agone, ogni scorcio ancora evoca l’impegno che lo ha riempito di vita. Ogni reperto testimonia la solennità con cui veniva celebrato lo sforzo.

Perciò se è vero che un rito diventa sacro quando assume un significato profondo, immateriale e si svolge con consapevolezza, allora non è blasfemo dire che la cerimonia con cui si accende il fuoco di Olimpia, nel tempio di Hera, è l’inizio della liturgia quadriennale del culto olimpico.

Lo scorso 16 aprile quel ciclo si è riaperto, il mito della fiamma si è rinnovato a ricordare il contributo di senso che lo sport può aggiungere alla vita. La ritualità con cui si svolge commuove anche chi è convinto che quella sensibilità non gli appartenga: la colonna sonora è il silenzio alternato al fruscio della vegetazione mossa dal vento; il ritmo è scandito dai passi delle sacerdotesse.

Il palcoscenico è la bellezza senza tempo delle rovine immerse nella natura. Tutto e tutti fanno da cornice all’unico protagonista, il fuoco, che la tradizione vorrebbe scaturire da una coppa in cui concentrare i raggi del sole: richiama l’antica passione lasciata in eredità alla vocazione dei Giochi moderni; rappresenta la forza dello stesso sole che allora, come ora, vorremmo illuminasse la via della pace e della giustizia.

Quella fiamma che annulla la distanza tra passato e presente si alimenta della devozione con cui ogni tedoforo l’accompagna all’appuntamento col braciere, che arderà per tutta la durata dei Giochi olimpici: basterebbe questa infinita staffetta d’amore, tra persone tanto diverse tra loro, per giustificarne la sacralità.

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Atleti e spettatori

La lunga corsa della fiaccola olimpica è il rito in cui atleti e spettatori, interpreti della scena sportiva e comparse, si mescolano e sono tutti allo stesso modo protagonisti. Tuttavia la suggestione del simbolismo non viaggia solo attraverso il fuoco della torcia. Se i Giochi olimpici possono essere realizzati è grazie a tante persone che desiderano donare il loro tempo libero, a titolo assolutamente gratuito, per esserci e contribuire, ognuno con la propria parte d’impegno, affinché la grande festa dell’umanità si possa compiere.

Ad esempio, il comitato organizzatore dei Giochi di Parigi, per far funzionare tutti i servizi ausiliari allo svolgimento delle competizioni (che porteranno all’assegnazione delle medaglie, a vincitori e vincitrici, dei 329 eventi in programma nei 19 giorni di gare) avrà a disposizione 45.000 volontari. Può sembrare impossibile ma la disponibilità supera sempre, ampiamente, l’enorme necessità di risorse umane. I volontari vengono attentamente selezionati e formati vagliando una ad una le candidature che tendenzialmente arrivano in numero 6 volte superiore al contingente richiesto.

I volontari non cercano un compenso materiale: si mettono a disposizione per una divisa coi 5 cerchi stampati sul cuore. Indossare quel simbolo vuol dire essere riconosciuti come parte di un mondo in cui i continenti sono intrecciati e abbracciati, come le persone che li abitano: vuol dire entrare in una dimensione di riti e cerimonie condivise tra esseri umani, atleti o volontari che siano, accomunati da miti, forse favole, che aiutano a guardare al futuro con la fiducia del lieto fine.

Le emozioni

La ritualità nello sport scatena emozioni intense. Chi ha vissuto la straordinaria esperienza di vincere i Giochi olimpici sa che c’è una domanda che lo accompagnerà per tutta la vita e che gli verrà posta da persone di ogni età, di differenti estrazioni e culture anche a tanti anni di distanza: «Cosa si prova a salire sul gradino più alto del podio mentre suona l’inno e viene issata la bandiera?». Una domanda retorica, perché chi la pone una risposta non la vuole, la conosce già: ha solo l’esigenza di fermarla, di avere conferma che quel momento di realizzazione personale, profondo e totale, può esistere e può essere anche suo.

Perché in una società contaminata da bisogni indotti e anestetizzata nella superficialità, scoprire i propri desideri autentici, sentire la spinta a realizzarli, è forse più vitale dell’ossigeno.

Inseguire un obiettivo con la stessa forza e determinazione di un atleta alla finale olimpica, che sia un titolo di studio, un lavoro, una relazione da salvare, un diritto da rivendicare, una montagna da scalare: ognuno vorrebbe avere un traguardo da raggiungere con tutto l’impegno di cui è dotato e con cui riempire di senso la quotidianità della propria vita.

L’intramontabile fascino che attraversa i millenni, la straordinaria universalità capace di parlare la lingua di tutti, affondano le radici del successo dello sport nella vasta gamma di profonde emozioni che sa accendere. Il sacro fuoco di Olimpia fa luce in quella dimensione nascosta, ma più potente di muscoli e tendini, in cui ognuno cerca la motivazione a dare il massimo e contribuire a fare del mondo un posto migliore.

«Lo sport consiste nel delegare al corpo alcune delle più elevate virtù dell’animo umano», diceva lo scrittore Jean Giraudoux. E allora lasciamo che la liturgia dell’Olimpismo ci salvi, non importa se tra contraddizioni, manipolazioni e fallimenti: lasciamo che continui la sua suggestione per spronarci a dare il meglio, pur sapendo che non contiamo niente. 

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