Che cosa ci stanno dicendo i nostri antenati, con questa immagine che arriva a noi soltanto adesso, dopo quasi duemila anni?

In uno dei piccoli affreschi alla base del banco di vendita del termopolio di Pompei, la rivendita di cibi caldi pienamente riportata alla luce in questi giorni dopo due anni di scavi, c’è un gallo dal piumaggio rigoglioso, probabilmente della razza che oggi viene chiamata Combattente spagnolo.

È un animale magnifico, magnificamente dipinto. Le penne sono di un fulvo acceso. La coda è grigia e antracite; i suoi archi piumati sprizzano come una fontana di inchiostro; e anche le penne rossastre del corpo sembrano fatte apposta per essere dipinte. C’è un’empatia profonda fra penne e pennellate. Questo gallo si è offerto alla pittura, il suo destino era quello di essere affrescato: né scolpito, né fuso nel bronzo, né disegnato, ma tracciato da un pennello su un intonaco. La sua dipintura realizza l’apice di una civiltà dove lo sguardo e la sua oggettivazione artistica corrispondono, si rispondono a vicenda, trovano compimento nel loro perfetto rapporto reciproco: gallo e pittura, penne e pigmenti, figura e pennello, linee anatomiche animali e gesti della mano che le traccia.

Questa felice adeguatezza è incrinata da una catastrofe: infatti, non c’è solo il nostro sguardo esterno all’immagine che si compiace di quanto la pittura sia idonea a cogliere la gloria di un gallo; c’è soprattutto lo sguardo interno alla scena, uno sguardo animale: il gallo sta fissando due cadaveri di anatre, distese alla rovescia, con il ventre all’insù, il collo penzolante, già tirato dal cuoco. Sono due germani reali morti, in attesa di essere spennati. Le gole sono stirate, esposte, le ali oscenamente spalancate, le zampe stecchite, vivide, rosse.

Il gallo razzola in cucina, le scopre, resta a guardarle da dietro una colonna. L’affresco lo coglie in quell’istante, e lo costringe per sempre a fissarle. Il prossimo ad avere il collo tirato sarà lui. O forse no, per ora quella morte gli sarà risparmiata, perché c’è una gerarchia fra le specie allevate dall’uomo: ci sono quelle che vengono cresciute per essere ingrassate e mangiate, e quelle che vengono sottomesse ad altre schiavitù. A lui è toccato in sorte rendersi conto dell’uccisione delle altre specie a disposizione degli uomini.

Il pensare d’esser cucinato

In una favola di Esopo, un falco addomesticato vola dal suo padrone ogni volta che si sente chiamare. Il falco rimprovera un gallo di essere un ingrato, perché quello, al contrario, scappa sempre quando l’uomo gli si avvicina. Il gallo gli risponde che non si è mai visto un falco arrosto, mentre non passa giorno senza che un pollo venga messo in tavola.

Nei giorni prima di Natale, nella mia città, vicino a Rialto, ho visto delle ragazze animaliste di Anonymous for the Voiceless con la maschera di V for Vendetta sul volto: schiena contro schiena, a gambe larghe, ben piantate sul selciato, reggevano due grandi schermi digitali appesi al collo: mostravano immagini di allevamenti intensivi, file di polli sgozzati e appesi a testa in giù, denudati da rasoi meccanici, pulcini triturati vivi.

Fra le poesie della Via del rifugio di Guido Gozzano ce n’è una intitolata La differenza (1907). Gozzano si domanda che cosa pensano le papere mentre starnazzano in riva al canale. Non pensano alla sorte che le aspetta a Natale, non pensano al coltello della cuoca. La conclusione è che «la Morte non esiste: / solo si muore da che s’è pensato. / Ma tu non pensi. La tua sorte è bella! / Ché l’esser cucinato non è triste, / triste è il pensare d’esser cucinato».

Più vicino a noi, il desolato cantore dei macelli, Ivano Ferrari, ha lavorato in quei luoghi atroci, dove ha scritto alcuni libri di versi. Anche lui si aggira fra animali inconsapevoli: nella raccolta di poesie La morte moglie (Einaudi, 2013) una vitella non ha «nessun presentimento / di stare tra la morte e uomini minori», gli addetti alla sua imminente uccisione. Ma c’è anche un’altra vitella, nella raccolta Macello (Einaudi, 2004) che invece è «stupita d’esser viva»: vede le altre vitelle già uccise, le sue «sorelle» appese ai paranchi, «si sente sola e brutta a respirare» e «rotea intorno lo sguardo suo più dolce».

Un incontro fatale

Duemila anni fa, attraverso questa immagine affrescata, la bottega pompeiana che vendeva animali cotti, capretti, lumache, spezzatini di carne e pesce, faceva pagare un obolo riflessivo ai suoi clienti, proprio davanti al banco di vendita del cibo caldo. Ciò che mostrava non era, banalmente, una rappresentazione delle bestie comprese nel menu, ma un apologo creaturale, una scena stemmatica, un incontro fatale: un animale ancora vivo che ne guarda altri due appena uccisi, pronti per essere spennati, fatti a pezzi, cucinati, mangiati. È un gallo filosofo: ha conosciuto la morte, l’ha vista nella propria specie e in quelle a lui prossime; l’ha meditata, e ne è consapevole.

O tu, mortale, che assapori il cibo qui in vendita, sappi che non stai per mangiare bestie ignare. Esse hanno visto la morte, e l’hanno pensata.

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