Ormai è un filotto preciso per tempismo e colori, cianfrusaglie varie. Dall’Halloween al Natale il passo è breve, veloce come la luce. Dagli scheletri, le streghe, alle palle e agli alberi, i personaggi dei presepi che una volta erano di terracotta, opere d’arte, oggi sono di quella plastica dura la cui composizione è segreta persino a nostro signore Iddio.

E poi l’autunno, il settembre lentissimo del rientro dalle ferie, poi come una fucilata gli altri mesi.

Sino a dicembre.

Sino a Natale.

Una diga. Una frontiera. Un sentimento.

C’è chi lo vive come il superamento di un passo montano che porta, all’orizzonte, al mare estivo, la bella stagione. C’è chi come una frontiera lo vive tutte le volte con una angoscia da agguato alle spalle, da nemico pronto ad assalire.

Poi c’è chi lo vive come un sentimento.

Anzi. Una serie di sentimenti. Di sentire diversi. E di stati d’animo così stratificati dentro di noi da arrivarci sotto la suola delle scarpe.

Natale è l’infanzia, dunque, la nostalgia. È la fila di sedie svuotate dalla morte.

Natale è il conflitto, quello tra mariti e mogli, fratelli e sorelle, sempre sopiti in nome della festività che non può non avere la meglio ed essere rispettata.

Natale è la gioia di chi si rivede dopo le tragedie che l’uomo sa costruire ad arte, pensiamo alle famiglie ucraine che si riuniranno dopo mesi di guerra.

E ancora. Ancora.

Natale è uno per ognuno di noi.

Per molti è il momento il cui il vuoto interiore, il nulla che consideriamo nostra sostanza, si gonfia talmente tanto di fronte a tutte le idiozie e gli auguri scemi da diventare qualcos’altro: una specie di orgoglio.

«Fateveli voi gli auguri, auguratevelo voi un nuovo anno, uguale a ogni altro, che si consumerà come ogni altro».

Ieri, dentro un gommista, causa foratura, il personale regalo di Natale che mi son fatto, mi si è avvicinato un gatto. Grigio, simil certosino.

Il padrone dell’officina mi spiegava che porta una vite a tenergli la mascella perché da piccolo lo hanno messo sotto.

Lui si è avvicinato. Senza chiedere niente. Senza volere niente.

Anzi. Una cosa la voleva. Una carezza. Poi un'altra. poi migliaia.

Mi guardava con i suoi occhi gialli, con la sua arresa bontà.

Voleva solo carezze.

Io e lui abbiamo fatto l’amore. Via la sessualità, via i corpi umani e animali.

Ma per mezzora ci siamo amati.

A ogni carezza mi ringraziava con un gesto della testa, poi avvicinava la bocca, un poco storta per via del trauma vissuto da cucciolo, e con la lingua mi baciava il palmo della mano.

Quest’anno il mio Natale è stato questo.

Tutto il resto. Parenti e amici. Panettoni e cotechini. Saranno il corredo del Titanic che affonda con la musica degli orchestrali a coprire la tragedia.

A te, gatto, di cui non so il nome, vivente in forme diverse dalla mia, grazie per il bellissimo natale che mi ha fatto trascorrere.

In nome di quella gratuità che accetta solamente l’amore come pane quotidiano.

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