L’ex direttore del mensile Forbes, Zack O’Malley Greenberg, ha pubblicato la classifica dei meglio pagati nell’hip-hop lo scorso anno. Primo Jay-Z con 470 milioni di dollari, secondo Kanye West (meglio Ye, il suo nuovo nome) con 250 milioni.

Più di dieci anni fa, quando uscì Watch the Throne, l’album firmato da entrambi, Forbes aveva certificato le stesse posizioni con cifre dieci volte minori: 37 milioni a 16. 

La novità è che i guadagni del 2021, complice anche la pandemia con l'interruzione dei concerti, arrivano in minima parte dalla musica. Jay-Z incassa i movimenti di proprietà della piattaforma Tidal, mezzo ceduta a Jack Dorsey di Twitter, e del marchio di champagne Armand De Brignac a Lmhv.

Ye conta le royalties sulle sue collezioni per i marchi Gap e Adidas. L’altro giorno è uscito l’album Donda 2, accompagnato da un evento alla stadio di Miami con uno stile tra Batman e Celentano, col lancio dell’unico player che oggi consente di ascoltarlo, il Donda Stem, 200 dollari.

Il documentario

Un incontro in sala di registrazione tra i due “re del cash”, quasi vent’anni fa, è uno dei piatti forti di Jeen-Yuhs (leggi: genio), il documentario di quasi 5 ore per tre puntate in onda su Netflix che segue la vita professionale di Kanye West dal 1995, quando non era nessuno, con le immagini da camcorder e la voce fuori campo dell’amico Clarence Simmons detto “Coodie”.

Appassionati e nostalgici apprezzeranno fino alle lacrime la performance dell’aspirante rapper di fronte al maestro Jay-Z, 8 anni più grande – l’erede di Notorius B.I.G. assassinato a Los Angeles pochi anni prima.

«Le riviste mi chiamano rockstar/ le ragazze mi chiamano cockstar/ per Billboard popstar/ per i vicini sono la star dell’isolato/ Noi siamo i papponi di Chicago/ Siamo i duri del mestiere», rapperà Kanye nella sua strofa in The Bounce.

Il tempo passa veloce. L’ossessione dell’hip-hop per il successo, la ricchezza, il bling bling e i macchinoni non è mai per caso, ma può cancellare la memoria del resto, l’abilità divina di improvvisare rime, di dare forma al mondo (e spaccarlo) con le parole.

All’epoca ventunenne Ye aveva già collaborato al disco precedente di Jay-Z nel prezioso ma segreto ruolo di beatmaker, quello che inventa le basi.

Nessuno alla Roc-a-fella, la casa di produzione indipendente fondata dal rapper di New York con due amici ex spacciatori immaginava che dietro quel “college dropout” arrivato da Chicago ancora con la felpa rosa e i mocassini ai piedi potesse nascondersi uno Shakespeare della rima.

Per un po’ non gli danno retta. La forza e l’ostinazione con la quale lui riesce a convincerli sputando le sue rime a secco, muovendosi tra un ufficio e uno studio di registrazione, è un’altra delle linee narrative forti della prima parte del documentario: «Paghiamo per uscire di galera/ ma non possiamo comprarci la libertà/ Compriamo vestiti e non ne abbiamo bisogno/ per nascondere quello che abbiamo dentro», rappa ancora in All Falls Down, «Ho un problema coi soldi lo so, ma sono il primo ad ammetterlo».

L’operatore-regista “Coodie” Simmons, un comico riciclato alla conduzione tv, ha conosciuto Kanye West giovanissimo durante una registrazione del suo minishow “Channel Zero”: una telecamera e un microfono lanciati nelle feste e nei backstage della scena hip-hop di Chicago, Chi-Town.

Conquistato dall’ossessione del rapper per il successo ha deciso di seguirlo marcandolo stretto fino al Grammy Award. Pur non sapendo né come né quando l'avrebbe ricevuto, Kanye gli aveva rivelato di aver pronto da sempre il discorso di accettazione.

Da Chicago a New York, poi a Los Angeles. A Santo Domingo. Nel ranch in Wyoming. Coodie inizierà a montare il suo materiale soltanto 21 anni dopo, nei giorni del lockdown, quando di Grammy Ye ne avrà vinti 21.

Alla fine della seconda puntata ascolteremo anche il primo dei suo discorsi di accettazione: «Tutti aspettavano di sapere che cosa avrei fatto o detto stasera. Niente. Non farò niente».

Santo di strada

C’è qualcosa di religioso, di antropologico persino, nella febbrile ossessione con la quale il rapper di Chicago mette in pratica i suoi progetti. Qualche volta li chiama sogni. Altre volte sono visioni.

Spesso così nebulose nel contenuto da bruciare di puro furore, metà politica e metà nevrosi. «Dio ti regala il mondo –  dirà una volta Kanye – ma può togliertelo quando vuole».

La retorica del black capitalism, del capitalismo digitale tout court, l’ombra di James Brown, 40 acri e un mulo. Figlio di una professoressa universitaria di letteratura, Donda, unica donna che resta fissata in queste centinaia di ore di riprese –  mamma, manager, ideologa, star assoluta – e di un ex Black Panther che vedremo solo in fondo durante una conversazione sullo smartphone, Kanye dirà: «Cerco di contrastare il continuo minimizzare che si fa dell’autostima di noi neri». Mai stato in galera. Neppure particolarmente cattivo.

Si atteggia a genio, odiato perché arrogante e viceversa. È un predestinato, strumento nelle mani di Dio, la sua vita è la parabola di un santo di strada.

Poco prima di incidere il suo primo singolo a Los Angeles ha un brutto incidente di macchina, si rompe la mandibola ed è costretto a fermarsi per 6 mesi.

Coodie documenta tutto, comprese le operazioni splatter dal dentista coreano. Poi, con le sue immagini e l’aiuto del regista Chike (col quale fa coppia, anche lui firma Jeez-Yuhs) compone il primo videoclip per Through the Wire. Rappato da Kanye West attraverso il filo di metallo che gli chiude momentaneamente la bocca e nel testo ricostruisce la vicenda dell'incidente con un’irriverenza che unisce il martire afroamericano Emmett Till, l’ospedale dove morì Notorious B.I.G., il vecchio incidente di Micheal Jackson con il fuoco. «La notizia era su Mtv/ e non devo mettere su una band/ Giuro, stavo facendo la storia».

Morte-al-lavoro

Nell’era degli smartphone e dei social personali fatichiamo a ricordare i tempi delle piccole telecamere digitali, la pasta iperreale delle immagini, le righe orizzontali del tracking che dominano l’estetica di questo documentario.

L’effetto teatrale di entrare in una stanza seguiti come un ombra da un tizio con in mano una piccola Canon GC1. Il ruolo del cameraman come specchio, voce della coscienza. Il cinema come “morte-al-lavoro” (dicevano i vecchi critici).

Jeen-Yuhs in questo senso è solo in parte un documentario su Kanye West. È l’elegia per un mondo scomparso, liquefatto: lo showbiz prima del dominio dei social, i videoclip di Mtv, il machismo del rap degli anni Zero, il rituale solenne dei Grammy Awards.

Neppure è un caso che Kanye individui il punto in cui il filo  inizia a spezzarsi nella serata in cui sale sul palco dei Grammy a contestare il premio al miglior video assegnato alla cantautrice bianca Taylor Swift.

È il 2009. Sua madre Donda è morta due anni prima. La sua popolarità è già tale che persino il presidente Obama in un fuorionda gli dà del cretino.

Può darsi che anche questo c’entri con il sostegno dato tempo dopo a Trump, ma il mondo di Kanye da allora diventa un luogo paranoico e confuso, fino al primo episodio di disturbo bipolare, al ricovero coatto in un ospedale psichiatrico.

Rinascita ultracristiana

È il 2016. Coodie da tempo può soltanto seguire da lontano il suo amico. Viene riammesso alla sua corte l’anno dopo, quando il rapper in convalescenza, psicofarmaci e rinascita ultracristiana torna a circondarsi dai suoi vecchi amici.

Coodie capisce in fretta che sarebbe di nuovo in grado di documentarne lo stato mentale precario, i discorsi sconnessi, privati e pubblici. Nella villa a Santo Domingo dove Ye medita un grande piano edilizio, stile Costa Smeralda.

Durante la folle campagna elettorale per l’elezione a presidente. I comizi contro l’aborto, in lacrime, le opinioni sulla schiavitù, la separazione con Kim Kardashian.

Più di una volta, platealmente, spegne la telecamera quando capisce che i discorsi del suo amico («per me è un fratello») diventano farneticazioni. Più sottile e doloroso apprezzare la componente metaforica della cosa.

Il rapper che ha saputo fare uscire le sue parole anche dalla bocca cucita, lo schiavo che ha spezzato le catene del senso, oggi è condannato a una specie di deriva semantica, una torre di Babele interiore che abbraccia idealmente tutti i complottisti, i paranoici, i matti che ci circondano così numerosi. Coodie prega per lui, e affida a Dio i destini di tutti. Possiamo unirci in silenzio.

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